Ammentos e Faeddos de Cuglieri

Ricordi, modi di dire e parole da conservare

Autore: Francesco Luigi Sotgiu
Anno: 2012
Pagine: 184
ISBN: 978-88-95692-72-2
Prezzo: € 20,00
Note: Formato 17×24 / La foto di copertina è dell’archivio di Franco Spanedda / All’interno fotografie di Marco Barreira, Franco Spanedda, Francesco Luigi Sotgiu

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Il libro

Cuglieri, importante centro del Montiferru, è stato capoluogo di provincia nel 1800 e sede del Seminario pontificio regionale per alcuni decenni del 1900. I ricordi giovanili dell’autore fotografano la realtà  del paese, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 e costituiscono una testimonianza di antropologia sociale e linguistica. Il libro si compone di due parti: la prima, Ammentos, è scritta in italiano con traduzione di alcune parti in sardo; la seconda, Faeddos, è scritta prevalentemente in sardo, con traduzione in italiano. La sezione Faeddos raccoglie modi di dire e detti popolari in uso e un glossario dei termini più utilizzati nei vari aspetti della vita quotidiana. L’opera fornisce un importante contributo alla conoscenza, salvaguardia e diffusione della variante cuglieritana della lingua sarda logudorese.

La prefazione di Giulio Angioni

La Cuglieri di Francesco Luigi Sotgiu, messa per iscritto, se è più per lui, così è anche per noi. Cuglieri, ricordi e parole. Ricordi che innescano parole, parole e cose, parole e persone, parole e fatti e fatterelli.

La scomparsa di un modo di vita, già  evidente quando quarant’anni fa Francesco Luigi Sotgiu lasciava la sua Cuglieri per Cagliari, nel frattempo ha spinto molti altri a documentazioni attente, preoccupate, nostalgiche, anche, di un modo di vivere infranto e sostituito. Ma conosciuto nell’infanzia, che oggi appare, ed è, come spesso mi capita di considerare, un’infanzia più simile a quella dell’età  dei nuraghi che all’infanzia di oggi. Queste pagine a volte scarne e schematiche sono un documento umano vivo, un romanzo corale in cui tutti gli attori sono protagonisti nei diversi ruoli, nelle narrazioni di ambienti, di individui, di gruppi, in una parola ritrovata.

L’impresa di ripercorrere modi di vita dell’infanzia dell’autore, di capirli meglio, si deve molto al fatto che quel mondo ormai può esistere solo nella memoria viva e recente non solo personale, ma di un’intera comunità . E il ricordo obbliga a constatare, se non proprio a misurare, quanto tutte le Cuglieri non solo sarde siano cambiate, nei pochi decenni trascorsi da quando il nostro Francesco Luigi lasciava il paese dell’infanzia. Il recente mutamento del modo di vita, rapido, profondo e straniante, è l’esperienza storico-culturale più importante dell’ultimo millennio in Sardegna. Anche per Sotgiu ciò ha coinciso con l’inurbamento. Altri lo diranno per altri luoghi e per la stessa epoca con non meno ragione. Anche chi si rifà  ai miti tenaci della conserva-zione e della resistenza costante, sulla scorta di questi documenti deve fare i conti col fatto che la Sardegna è cambiata e sta cambiando, nel bene e nel male, una volta tanto senza ritardo rispetto al mondo che si dice occidentale. E deve per lo meno notare che è cambiata e sta cambiando non soltanto nelle sue città  antiche e nelle sue coste sempre più turistizzate, ma che il mutamento riguarda anche la Sardegna più interna, quella che spesso si pensa come la vera Sardegna, magari incontaminata. E deve concludere che se mai la conservazione e il ritardo storico e culturale sono stati in altri tempi caratteristiche dei sardi, come conseguenza della geografia quanto o più che della storia, non è più così, soprattutto negli ultimi decenni del millennio scorso. Il paragone tra l’oggi e il passato recente così rapidamente finito qui si impone. A riprova del fatto che l’isola è ormai implicata in tutto e per tutto nell’oggi e nell’Occidente, può perfino bastare che la Sardegna oggi è come immagine un luogo di vacanza, uno dei paradisi dell’estate, mentre allora era ancora un premio andare via, una speranza di vita migliore, per chi emigrava, mentre qui ora viene chi cerca quel che i nostri disoccupati cercavano altrove, negli anni in cui rapidamente finiva la millenaria epoca qui documentata nel suo finire.

La Sardegna come terra e come realtà  antropica continua però ad avere in Europa un’immagine di diversità  profonda, di luogo della differenza come altri pochi nel mondo che diciamo occidentale. Un tempo era luogo di differenza negativa. Da qualche decennio l’isola gode di considerazione positiva soprattutto in quanto luogo turi- stico, e in più pensato non di massa, a immagine della Costa Smeralda. La differenza della Sardegna in Europa è certamente un dato e una constatazione, ancora oggi, oltre che un sentimento soggettivo della maggior parte dei sardi. Vaga diversità , forse soprattutto come naturalezza o naturalità , genuinità , arcaicità , primitività , preistoria vivente, luogo incontaminato, remotezza ed esotismo; diversità  come atemporalità  o come temporalità  non lineare e irreversibile bensì ciclica e che si ritrova e si rinnova nella naturalità  delle stagioni e delle generazioni; e poi come silenzio, solitudine e sublime dei primordi, nei suoi spazi selvaggi e incontaminati, e dunque come vacanza dall’urbano odierno, in una natura idillica e in una società  che appare ancora ricca di colore locale. Non a torto la Sardegna era considerata, fino a qualche decennio fa, in modo per lo più negativo, sebbene accondiscendente: a parte l’insularità , certi mali tipici di queste latitudini in Sardegna erano, e in parte ancora sono, più gravi e tipici che altrove in Europa: malaria, talassemia, favismo, echinococcosi, arretratezza, analfabetismo, miseria, banditismo, eccetera. Di tutti questi e di altri mali, alcuni sono ormai solo un ricordo. Altri restano un impegno a farli diventare presto anch’essi solo ricordo, con la prospettiva non velleitaria di riuscirci. Anche ciò che si è detto spesso e a lungo fatalismo sta per diventare cosa del passato, svanito insieme con il suo corollario che il fatalismo fosse retaggio della stirpe, eredità  genetica. E nel cambiare l’atteggiamento dei sardi verso il mondo e la vita, e dei non sardi verso l’isola, certamente la fine di mali storici come la povertà , l’analfabetismo e la malaria ha avuto la sua parte. E ciò rende difficile la denigrazione indiscriminata del mutamento ultimo, che sta anche mettendo fine all’isolamento, non sempre splendido.

Ma anche l’antica opinione che la Sardegna sia uno dei luoghi italiani, e più in generale euro-mediterranei, più conservativi e arcaizzanti, non è ancora oggi priva di fondamento, soprattutto per quanto riguarda le forme di vita materiale e di mentalità  collettiva, gli usi e i costumi, per esempio nel lavoro produttivo qui documentato. Senza esagerare le conseguenze dell’isolamento, le condizioni geografiche non meno delle vicende storiche hanno fatto di quest’isola, tra tutte le isole mediterranee, fino a pochi decenni addietro, la meno esposta agli influssi e agli scambi culturali. Anche se non esclusivo della Sardegna, il contrasto è forte tra una grande discontinuità  e varietà  culturale interna all’isola e il suo apparire tuttavia come sostanzialmente unitaria se la cultura isolana nel suo complesso si paragona con l’esterno.

Per chi ci vive però la Sardegna, così come presenta una discontinuità  geografica notevole, presenta una sua interna discontinuità  socio-economica, linguistica e più generalmente culturale. E ciò è conseguenza, ancora oggi ma soprattutto nel passato, di una grande difficoltà  di circolazione interna, oltre che della scarsità  di comunicazione verso l’esterno. Se visto in rapporto col mondo esterno, questo “piccolo continente remoto”, come lo definisce l’antropo-geografo francese Maurice Le Lannou, possiede una forte individualità  culturale. Ed è un fatto importante che questa individualità  pare entrare in crisi proprio quando i tratti culturali apparentemente più sardi si paragonano con l’esterno, in ambito europeo ed euro-mediterraneo. Allora essi mostrano più somiglianze e coincidenze che peculiarità  ed esclusività , che pure restano anche se si resta ai dati della storia, della geografia, dell’antropologia, della linguistica e così via. Per questo, anche, la documentazione che Sotgiu qui ci offre della vita a Cuglieri in forma di ricordo vale in grande misura per tutta la Sardegna, e per aspetti non secondari per tutto il Mediterraneo antico e recente.

Anche le zone interne sarde, montane come il Montiferru, sono davvero mutate, ma continuano anche a essere quelle di un tempo, e cioè agricole e molto pastorali. È un aspetto della loro mutazione il fatto che sono diventate sempre più pastorali, sempre più dedite alla monocultura ovina, sempre meno brada e più stanziale e sta- bulante. In particolare, nel caso della montagna e della sua antica pastorizia ovina, si tratta di una tendenza che è venuta rafforzandosi da un secolo a questa parte, a partire dalla caseificazione industriale per opera di grossisti e di casari laziali e abruzzesi, cioè con la produzione in Sardegna del pecorino romano, che verso la fine dell’Ottocento entra nel mercato mondiale, così com’è successo per il grano, che anche a Cuglieri era re e il pane era bianco.

Intanto parliamo di villaggio globale, dove tra città  e campagna non c’è più vera differenza di modi e di livelli di vita, e di questa omologazione tra città  e campagna fa parte anche il non fare i figli di un tempo, visto che la denatalità  in Italia è più o meno la stessa a Milano come a Cuglieri. Ma dalla campagna la gente continua ad andarsene, mentre dal Terzo Mondo si immigra anche a Cuglieri, mentre chi resta a Cuglieri continua a emigrare distruggendo il proprio passato, perché non ci si accorge abbastanza che non c’è più vera differenza, se non a favore della campagna, come genere di vita, magari residuale, ibrido, tra campi e cellulari. È possibile che “l’arretratezza” dei luoghi come i paesi sardi dell’interno consista anche nel non riuscire ancora a vedere che si è compiuta l’omologazione con la città , nel bene e nel male, e perciò la si persegue in modo distruttivo, non vedendo ancora il maggiore agio del genere di vita paesano almeno in quanto possiamo dire che vivere a Cuglieri è ancora più sano che vivere a Milano, in tutti i vecchi sensi dati al mito e alla realtà  della sana vita di campagna e in tutti i nuovi sensi dell’ecologismo e dell’ambientalismo di oggi, anche se Roma toglie la scuola e l’ospedale decentrato e Bruxelles s’immischia, come un rinoceronte in un negozio di porcellane, nelle fragili cose dell’agricoltura costretta al bricolage.

Ma qui Francesco Luigi Sotgiu vive il suo profondo nostos.

Un amico turbato da una vita raminga, senza centro, pretendeva un biglietto, un valido titolo di viaggio non di sola andata, ma di solo ritorno, per ritornare a casa. Molti, si dice, viaggiano solo per viaggiare, piantare tutto e andare via. Ma è solo il cielo, non l’animo che muta chi se ne va oltremare, dice il poeta antico. E poi nessuno va dove ha deciso, alla fin fine, dice un altro poeta. Nemmeno chi torna, rincara un altro: il tuo viaggiare, dice, sarà  solo un restare dove non sei mai stato. E un altro ancora precisa che il fine di tutto il nostro andare ed esplorare non sarà  che arrivare al punto di partenza e conoscerlo per la prima volta. Per non dire di quello che soprattutto raccomanda di non affrettare il viaggio nel tuo ritorno a Itaca, ma che duri a lungo, per anni, magari tutto quanto ti resta della vita: solo un bel lungo viaggio di ritorno Itaca infine ti avrà  dato, e questo solo avrà  significato.

E tutti sanno del plurimo Fernando Pessoa, poeta eteronimico, composito, di limiti e contesti illimitati, però non ossimorico, piuttosto insofferente dei contrari, o invece anche sì, quando gli conviene, con tendenza a guardarsi l’ombelico, dove però alle volte vede chiaro nel micro il macro e viceversa. Ha scritto, per esempio:

Da minha aldeia vejo quanto da terraӬse pode ver no Universo.

Non sbaglia chi traduce a prima vista in italiano:

“Dal mio villaggio vedo quanto dalla terra”¨si può veder nell’universo”.

Manco fosse il deserto di Atacama con il suo grande telescopio. Se l’idea non è nuova, rimane ancora bella, ben detta, ben pensata, l’idea di questo mondo dove ogni luogo è centro, come lo è dell’universo senza confini né misure. E a ben guardare, il testo se ne va per altre strade. Si può tra l’altro intendere così:

“Dal mio villaggio vedo quanto della terra”¨si può veder nell’Universo”.

Oppure ancora, legittimamente:

“Del mio villaggio vedo quanto della terra”¨si può veder nell’Universo”.

Gran bel vedere. E qui risulta acuta quella lingua, la russa, che in un solo termine, mir, dice: pace, villaggio e universo mondo. Poi si può suggerire, in aggiunta ai tre sensi:

“Dal mio villaggio vedo quanto della terra”¨si può veder dall’Universo”.

Gran bel vedere pure questo, a non finire, se non temi vertigini, ed è pure saggio, se il tuo villaggio sta nell’Universo, e tu con esso. E se l’universo si vede da Cuglieri quanto e come da qualsiasi altra parte del nostro pianeta, o dell’universo intero, Sotgiu sa che è ricordando che si vedono cose che altrimenti non avrebbe potuto vedere. E dice anche, come tanti altri hanno detto: parla del tuo paese e parlerai del mondo, e di qualsiasi altro paese, anche se resta pur vero che paese che vai, usanza che trovi.