Un piccolo assaggio del libro I giorni di Gigi Riva – Una storia da raccontare

W GIGI RIVA

Come accade leggendo i libri di storia e nelle cose stesse della vita, non c’è storia nella quale non s’intrecciano altri fatti e altri profili… altre storie. Una di queste, lunga un istante e una vita intera, ebbe inizio in un giorno qualsiasi dell’anno 1969, in una stanza, in una casa e in una città  qualsiasi, negli occhi di un ragazzino, passato per caso davanti ad un televisore acceso sul cui schermo scorrevano le immagini di una partita di calcio. Maglie bianche contro maglie scure, tutti a correre dietro ad un pallone, tutto come sempre: una noia, e lui ancora una volta lì a chiedersi come mai al suo papà  quello sport suscitasse tanto interesse e partecipazione. Ad un tratto, però, vide che tra quegli omini in calzoncini c’era anche lui, il calciatore del momento, Gigi Riva. Incuriosito, volle per una volta fermarsi un po’ di più a guardare. Così, adesso, quel nome tanto ricorrente aveva un volto, i cui tratti ricordavano quelli dell’immancabile protagonista di un film western, il pistolero senza macchia, né paura. Quella figura aveva di colpo acceso la sua fantasia. Era la scintilla di una passione appena agli inizi, ma destinata a crescere assieme a lui e a rimanergli accanto per molti giorni ancora.

Circa un anno più tardi, nell’autunno del 1970, la famosa ala sinistra del Cagliari e della Nazionale subì un grave infortunio di gioco. Accadde a Vienna durante la gara Austria-Italia. Un pressoché sconosciuto giocatore austriaco balzò agli onori delle cronache di mezzo mondo per aver strapazzato una gamba a Gigi Riva. Ironia della sorte, proprio nell’anno della sua completa consacrazione, l’emblema del calcio italiano rischiò di interrompere per sempre la sua carriera.

Frattanto il carrozzone del calcio era andato avanti per non fermarsi nemmeno a ridosso del Natale. Si erano invece fermate, per la gioia dei più giovani, le lezioni scolastiche, e per questi, in un clima di spensierata vacanza e con libri e quaderni momentaneamente riposti in un angolo, iniziava a farsi sentire la più impaziente delle attese, l’ansia di sapere se e quale regalo, tra quelli più desiderati, sarebbe comparso sotto le lucine e gli addobbi dell’albero.

Il giovanissimo fan di Gigi, in quella mattina senza scuola, si era soffermato dietro ai vetri della solita finestra dalla quale cercava, e credeva, di vedere tutto quanto accadeva lui intorno. Poi, come altre volte, aveva approfittato di quel vetro appannato per farvi scivolare sopra il suo dito indice scrivendo il nome del suo idolo, preceduto dall’immancabile “W”. Fu allora che comprese che un’altra ansia, ben più grande, stringeva da giorni il suo cuore. L’idea fu di condividerla e con chi se non con lui? Staccò due fogli dal quaderno a righe, afferrò la sua bic mezza morsicata, e prese a scrivere con insolita vena; un po’ come fino a pochi anni prima, in periodi analoghi, aveva fatto per rivolgersi a… Babbo Natale o alla Befana. Ma quelle figure appartenevano a illusioni già  perdute da qualche tempo, stavolta i suoi desideri avevano un reale destinatario e un indirizzo per nulla vago, scovato tra le pagine dell’Almanacco del Calcio Panini: la sede sociale del Cagliari e più precisamente il signor Luigi Riva. Sulla busta aggiunse ”’ gli avevano detto si usava così ”’ tre parole quasi magiche “sue proprie mani”. E all’interno, vi mise la nostalgia dei suoi ricordi, gli elogi più sperticati e soprattutto una richiesta accorata: Torna presto! Ti aspetto. Quell’attesa gli sembrava ancora più interminabile quando giungeva la domenica… Perché senza di “lui”, senza le sue prodezze, ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto o guardare La domenica sportiva non era più come prima.

Quella lettera in viaggio verso una città  lontana lo fece sognare. Avendo scritto con cura e in chiaro stampatello il proprio indirizzo, prese a sperare di ricevere una risposta o, magari, di vedersi recapitare a casa la maglia numero undici della Nazionale oppure del Cagliari quale riconoscimento a tanta fedeltà  e affetto. Ma forse il suo idolo neppure iniziò a leggere quei pensieri appassionati, o, probabilmente, smise di farlo subito dopo aver scorso le prime due righe che, di certo, erano tanto simili a quelle di mille altre lettere d’altrettanti ammiratori che ogni giorno, puntualmente, riceveva.

Qualche tempo dopo, Gigi Riva tornò a giocare così come il ragazzino tornò a sorridere e a emozionarsi ascoltando la radio o guardando la tele. Fa niente se il sogno, racchiuso in quella busta, di quelle magliette ”’ una azzurra con lo scudetto tricolore e l’altra bianca con i bordi rossi e blu, il cordoncino nero che attraversa le asole del colletto e lo stemma dei quattro mori ”’ sarebbe rimasto soltanto un sogno.

Quei giorni del Natale 1970, non furono certo gli ultimi a vedere le scene calcistiche private della presenza del protagonista più amato. La malasorte si sarebbe ancora e più volte accanita contro Riva costringendolo a smaltire lontano dai campi di gioco altri noiosi infortuni e lasciando che tutti i suoi fervidi sostenitori ne attendessero pazientemente il ritorno. Parentesi, queste, che il nostro campione vivrà  sempre nel massimo riserbo e con la risaputa dignità , allo stesso modo con cui aveva protetto la sua immagine durante i tanti momenti di clamore che avevano accompagnato i suoi giorni migliori.

L’alternarsi della buona e della cattiva sorte, troveranno un epilogo qualche anno dopo. Dal telegiornale giungerà  la notizia del definitivo ritiro di Gigi Riva. Nessuna sorpresa, dal momento che era trascorso tanto tempo dall’ultima partita giocata da Gigi, e frattanto si era anche conclusa la parabola del leggendario Cagliari, ormai disceso in Serie B. Ciononostante, l’immagine del binomio Riva-Cagliari era destinata a non sbiadire. Perché se è vero che il ciclo della vita impone le sue leggi ancor più precocemente nello sport, dove coloro che invecchiano devono, ad un certo punto, lasciare il posto alle nuove generazioni, questo non ha valenza per chi è stato idolatrato dalle masse. Se poi l’idolo in questione è chiamato Rombo di Tuono, il suo passaggio lascia una scia incancellabile, fatta d’ammirazione e rimpianto. Il tramonto del campione vero non è mai un tramonto qualunque e quando giunge non lo oscura ma ne rimarca ancor di più i contorni: diventa mito. E il culto del mito è un privilegio di chi ha mantenuto nei decenni la visione incantata del gioco preferito, il pallone. Proprio come quel ragazzino che scriveva col dito su di un vetro appannato.

Gigi Riva è un nome divenuto leggenda del Calcio italiano, il contrassegno di un pezzo di storia felice dello sport e del costume nazionale. La sua immagine epica e la personale interpretazione del proprio mito, del quale non fu mai prigioniero, sono state per decenni fonte d’ispirazione per la letteratura sportiva del nostro Paese. Resta ancora, attraverso il tempo e la memoria, il calciatore che più d’ogni altro ha incarnato l’essenza stessa del gioco del calcio: il goal. Come lui, nessuno ha raccolto consensi, ammirazione e affetto, geograficamente tanto vasti tra il folto e appassionato, e fin troppo campanilista, popolo dei calciofili. È stato il campione di tutti, pur indossando, nella sua carriera, unicamente la maglia del Cagliari, oltre, ovviamente, quella della Nazionale di cui è divenuto l’inarrivabile capocannoniere.

I “giorni” di Gigi Riva, Rombo di Tuono accesero, mantenendola a lungo viva, l’idea romantica e pulita della sfida a colpi di pallone. Un’idea che ci racconta di quando la vittoria arrideva ancora al più meritevole; di quando la fantasia, il coraggio e il vigore atletico poteva confrontarsi e anche prevalere sulla ricchezza, il potere politico e la forza della tradizione; di quando le compagini calcistiche del nord, sorrette dalla grande industria, videro cessare – almeno per un po’ – il loro dominio domenicale. Era accaduto che un giovane predestinato, sbarcando su un’isola, a lui come a tanti sconosciuta, si era ripromesso di riscattare un passato di rinuncie attraverso la sua nascente professione di calciatore. Quasi un parallelo con la Regione che lo stava accogliendo. Parafrasando il biblico racconto del ragazzo e del gigante, l’atteso Davide era giunto per sconfiggere Golia: dal capoluogo sardo si sollevò un moto di rivoluzione verso il Continente, come a voler rovesciare il vecchio potere, da sempre abile a spartire nel proprio cerchio i successi e le glorie sportive e a non considerare che i percorsi storici, nella vita come nello sport, talvolta deviano più o meno repentinamente. L’aristocrazia del pallone s’inchinava a quella simpatica ventata di nuovo. Un evento tanto inaspettato quanto inconsciamente atteso da molti, destinato ad andare ben oltre il carattere sportivo sino a raggiungere le dimensioni di un fenomeno sociale.

Così, la rivoluzionaria vittoria dello scudetto da parte del Cagliari e i successivi fasti mondiali di “Mexico 70” svelarono all’Italia intera che il Calcio era, di diritto, parte integrante del costume nazionale: mai ci siamo sentiti così tanto fratelli d’Italia come nella notte del 17 giugno 1970, al termine di Italia-Germania-quattro-a-tre, “la partita del secolo”.

Sì, erano i giorni di Gigi Riva. Giorni con il pallone negli occhi e nella testa. Giorni di folle euforia, l’ultima immagine spensierata di un’epoca breve e intensa, quella dell’Italia anni Sessanta, la cui parabola felice si stava esaurendo. E l’occasione di un saluto festoso, ebbro e rumoroso, veniva da una partita di calcio, vibrante e incerta fino al suo epilogo, dove rassegnazione e speranza, gioia e delusione si alternavano con una meravigliosa crudeltà  nei nostri cuori e in quelli dei sostenitori tedeschi. Poi i folli festeggiamenti di massa, le scene di giubilo di una nazione intera: il trionfo per i nostri colori; era l’unione spontanea di un popolo che, compatto sotto il vecchio tricolore, si riversava, per la prima volta e per un motivo apparentemente futile, nelle strade e nelle piazze, da nord a sud del Paese.

Qualche settimana prima era stata la volta di una regione, antica e dimenticata, a emergere da un isolamento secolare, solo in parte giustificabile dalla sua posizione geografica. La Sardegna trovava nell’affermazione sportiva del Cagliari e nell’esibizione del suo invidiato alfiere fermenti sconosciuti, sorprendentemente condivisi dal Continente, e il riscatto dal vieto luogo comune che la voleva affètta da un cattivo rapporto con la modernità  e stretta, come in un masochistico legame, al suo problema più grande, il banditismo. I sardi, pur nella loro complessa realtà  socio-geografica, non erano un tutt’uno con faide, sequestri e omertà ; allo stesso modo, difendevano la propria cultura e le proprie tradizioni dall’insorgere dell’american style life in voga in quasi tutta la Penisola. Benché in ritardo, di questo l’opinione pubblica aveva preso contezza grazie alla squadra del capoluogo, primatista anche in simpatia, le cui vittorie avevano rappresentato il migliore spot pubblicitario per la definitiva esplosione del turismo in quello spicchio d’Italia contornato da spiagge paradisiache. Un’invasione pacifica che avrebbe svelato i contorni e il cuore di una terra difficile e affascinante, e di un popolo desideroso di smentire distanti pregiudizi che ne avevano condizionato il diritto allo sviluppo.

Dal boom economico ai giorni della contestazione

Qualche passo indietro…

Erano esplosi gli anni Sessanta, e mentre in Italia si respirava sempre più il profumo del miracolo economico anche il Calcio viveva la sua rinascita con la Nazionale che tornava a vincere e a far parlare di sé dopo trenta lunghi anni d’anonimato e di delusioni. In quel periodo di forte e generale ripresa si registravano, tra il 1964 e il 1969, le importanti affermazioni internazionali dei due club milanesi; i trionfi oltre confine di Inter e Milan, inoltre erano stati preceduti da quelli di Roma e Fiorentina nel 1961, nella Coppa delle Fiere (da lì a poco rinominata Coppa Uefa) e nella Coppa delle Coppe, tornei meno prestigiosi della Coppa dei Campioni ma non meno significativi.

Dunque, un confortante risveglio univa pallone e sociale. Con la tivù entrata ormai stabilmente nelle case e nel vivere quotidiano, la popolazione si scopriva adolescente, fiduciosa; i messaggi che giungevano dall’apparecchio con le antenne erano di sollievo e di voglia di stare insieme. Trasmissioni quali Il Musichiere, L’amico degli animali e Campanile sera diventano così le fedeli compagne dei dopo cena italiani. Al sabato sera, lo show Studio Uno ammalia e scandalizza i telespettatori, divisi sulle lunghissime gambe delle favolose gemelle tedesche Alice ed Ellen Kessler, che ballano in abiti succinti sulle note del “dada umpa” a mettere tutti d’accordo, invece, è l’appuntamento quotidiano delle ore ventuno: Carosello, ovvero cinque piacevoli cortometraggi, che rendono gradevole il messaggio pubblicitario e che conquistano soprattutto il favore dei più piccoli per i quali le note della sigla finale segnano anche il momento di andare a nanna.

L’oasi d’intrattenimento pubblicitario rappresentata da Carosello è il consolidamento della “società  dei soldi e dei desideri”. Altri termini nascevano per meglio raffigurarci: “il bel Paese”, nonostante l’emigrazione oltralpe e oltre oceano stesse toccando i suoi massimi storici, “il boom” e “il miracolo italiano”, ovvero il periodo che stava contrassegnando un’inaspettata crescita economica, che non aveva riscontro in nessun altro paese europeo, e la scoperta, la necessità  e il piacere del “consumismo”, di una corsa sfrenata all’acquisto d’ogni tipo d’elettrodomestico con la seducente televisione in cima alla lista, anche se l’aspirazione massima restava un’automobile nuova fiammante. Desideri che potevano realizzarsi grazie a persuasivo sistema di pagamento innovativo, le rate mensili.

Trenta firme su altrettanti “pagherò” da 20mila lire e una famigliola di quattro-cinque persone poteva risolvere il problema delle scampagnate domenicali accomodandosi – ma eravamo così magri? – a bordo di una Fiat 600.

Il nuovo vivere trovava il suo culmine nella capitale, dove nasceva la dolce vita; tre parole che riassumevano le abitudini notturne della mondanità  romana, ma le imitazioni, seppure con le dovute proporzioni, si diffondevano persino nei piccoli centri di provincia. Quel clima d’attese e benessere trovava posto anche nel cliché cinematografico, con gli indimenticabili Chiari, Gassman, Manfredi, Mastroianni, Sordi, Tognazzi e tanti altri “mostri” dello schermo chiamati ad interpretare le nuove abitudini degli italiani, dove un’ovvia sottolineatura l’avrebbero avuta i vizi e le virtù, le miserie e le grandezze di una nazione intera. Una serie di film destinati a diventare una sorta di affresco su celluloide, il capolavoro di alcuni cineasti abili ad intuire quanto il piacere di massa sia caduco ed effimero e, di lì a pochi anni, pronto a tramutarsi nello squilibrio che farà  da detonatore ai giorni della contestazione. Ia cinepresa muterà  il suo lavoro da intrattenimento in testimonianza per le generazioni future.