Il libro di A.

Autore: Sandro Muscas
Anno: 2013
Pagine: 456
ISBN: 978-88-98692-00-2
Prezzo: € 16,00
Note: disponibile da Novembre 2013

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Il libro

Ci sono molte cose in questo libro. Ci sono incontri e baci, discorsi fra amiche e racconti di guerra, amori antichi e nuovi, sogni e risvegli, asini e cavalli, elefanti e tartarughe, nuvole e strade, scontri di piazza e racconti fantastici, libri e letture, ragazzi e ragazze, aule scolastiche e paesaggi inconsueti, pianti e risate, vaporetti e automobili, aeroporti e stazioni ferroviarie, musiche e cibo.

Ma soprattutto c’è il tentativo di trovare una risposta all’interrogativo: che succede quando le persone provano a essere o solo a sentirsi più libere?

E se provano, non da sole, ma con l’aiuto di altri, di alcuni altri almeno?

L’amore, cercato e trovato, e l’amicizia: sono le vie percorse dai personaggi di questo libro in cerca di una ricomposizione di sé nel vissuto che aiuti ad affrontare l’alienazione e la solitudine di una vita vissuta molto al di sotto delle potenzialità  umane.

L’indice

  • I. Che cosa siamo, io e te?
  • 1. Un mattino, nel mese di agosto, A. si svegliò con l’idea
  • 2. Il pensiero dell’asino era stato la prima figura compiuta
  • 3. Dopo una mezz’ora di lettura dell’Isola di Arturo cominciò
  • 4. Aveva letto in un romanzo di Conrad questa frase perfetta
  • 5. Una piazzetta desolata in città . Pochi alberi, molto cemento
  • 6. Uscirono a fine spettacolo affacciandosi sulla via
  • 7. A.: – Senti Fanny, sono curiosa: ti vedo sempre
  • 8. Una mattina, era gennaio, sedevano su una panchina
  • 9. Ma insomma ecco, adesso nella quasi oscurità  della stanza
  • 10. A.: – Arrivederci, ragazzi. Siate felici
  • 11. Più che nella scuola A. trovava molti colori per strada
  • 12. Soggiorno di casa di Maria. È mattino inoltrato, fa caldo
  • Lo spazio è molto grande, una sorta di arena
  • 13. Fumavano tutti prima di infilarsi nell’atrio poco spazioso
  • 14. Un pomeriggio di dicembre, mentre lei si annoiava e fuori
  • 15. Sì Elena, ora ti racconto. Sono andata a sedermi in quella sala
  • II. La vita raccontata
  • 16. A. aveva conosciuto Maria nel mese di gennaio. Aquel punto
  • 17. Maria era nata a Roma, ma cresciuta in Libia quando questa
  • 18. Aquel punto Maria, che a raccontare si stancava molto
  • 19. – E non l’hai più rivisto? Finisce proprio così, la storia?
  • Abbandonato il palazzo di vetro la cui pancia si riempie
  • 20. Abbandonata a se stessa la vita non soffre o si lamenta
  • 21. – Ah ma insomma, ecco cosa voglio dirti. Sonia posò
  • 22. La mattina dopo i baci scambiati sotto la pioggia Sonia
  • 23. A. e Sonia si trattennero a conversare mentre la giornata
  • 24. Stanche, con le idee sfuocate e lo spirito molle per il languore
  • 25. In tutti quei mesi A. aveva visto Maria molto spesso
  • 26. Durò poco quel momento, il tempo giusto: presto ripresero
  • 27. Vedi, cara e ancor giovane A., mi dice con burlesca
  • 28. Alcuni giorni dopo l’incontro casuale con la famiglia
  • 29. A. lasciò cadere il telefonino sul sedile, s’accucciò
  • 30. Pianse a lungo quella notte, fino a consumarsi, fino a
  • Svegliandosi nella semioscurità  la donna
  • III. La sesta parte del mondo
  • 31. Un mattino poco dopo il suo ingresso nel palazzo
  • 32. Ma L. non sente le sue parole, perché esce dall’aula
  • 33. Approfittando di un momento di pausa sono andato
  • 34. L. è andato via senza fermarsi al piano suo, in effetti
  • 35. Un altro luogo frequentato abitualmente da L
  • 36. In poco tempo Sebastiano è diventato di casa nel mio
  • 37. Per diversi giorni ho seguito con interesse le evoluzioni
  • 38. Quel sabato mattina anziché starmene a casa sono andato
  • 39. Insomma, si dice L. uscendo per ritirare il pacco dei giornali
  • 40. Ore dopo, È ormai troppo tardi per rientrare a casa
  • 41. Effettivamente, lo dico sebbene sia poco elegante
  • 42. Ah ma qui non c’è più niente da fare, dice il capostazione
  • 43. Intanto, mentre L. si infila nel camminamento dei ricordi
  • 44. Guardo a volte l’arrivo del treno in questa stazione
  • 45. L. muove qualche passo in avanti quando vede
  • 46. Lasciati i due amici a quattro zampe, che si avviano
  • 47. Ma infine le sono accanto, cammino ancora regolando
  • 48. Salutata Luisa con un misto di letizia e tristezza
  • 49. Immergendosi di nuovo nella luce e nel calore del deserto
  • 50. Sentendosi bene dopo il riposo L. esce dalla stanza lasciando
  • 51. Come cambiano le persone in poco tempo, e come cambio io
  • 52. La violinista ripone lo strumento nella custodia, poi si china
  • 53. Mi abbraccia e dice, guardando il centro fondo dei miei occhi
  • Paesaggio con battaglia
  • Dissolvenza
  • Note su libri musiche idee eventi, e persone

Dal libro

Un mattino, nel mese di agosto, A. si svegliò col pensiero di comperare un asino. Aveva letto in un sito internet dedicato che si potevano acquistare anche a due-trecento euro, una cifra tutt’altro che impossibile per le sue magre risorse. Si era anzi chiesta con meraviglia come mai costavano così poco. Del resto l’idea della compravendita di esseri viventi le riusciva sgradevole, così somigliante alla tratta degli schiavi: trovava incivile che si potesse decidere con una transazione commerciale il destino di animali dagli occhi così intelligenti e buoni. Anche se a sentire le raccomandazioni contenute nel sito bisogna stare attenti alle mani, specie quando gli si dà  da mangiare. Avolte pare ci scappi un morso male indirizzato. Inoltre, le avevano detto persone con cui aveva parlato per informarsi sulla fattibilità  dell’idea, a volte si rischia un calcione doloroso, i somari non sono del tutto e sempre remissivi e quieti. Però A. non credeva molto a quest’ultima informazione, la giudicava una diceria facile e infondata, un’attribuzione arbitraria della nota cocciutaggine dei muli ai loro cugini asini. L’attirava anche l’idea di una scelta così inusuale: le piacevano le persone che compiono gesti rari. Aveva letto che una ragazza americana era rimasta per dei mesi in cima a un albero centenario per evitare che venisse abbattuto. Poi ce n’era un’altra che s’era votata allo studio e alla cura dei leoni. Un documentario mostrava la giovane donna intenta a guidare un incredibile corteo di leoni adulti, maschi e femmine, verso il mare. Era accompagnata da guardiani del parco africani, uomini altrettanto coraggiosi che assecondavano la stranissima e pericolosa impresa. Ileoni arrivavano al mare, mai visto prima, giocavano tra gli schizzi delle onde e correvano sulla sabbia come bambini inconsapevoli della propria ferocia.

A. aveva pensato che c’è qualcosa di grande in certe azioni intraprese dalle persone. Azioni senza ragione apparente, così gratuite e completamente non normali, non sempre comprensibili a prima vista. Eppure il loro significato è luminoso. Conosceva anche esempi di atti coraggiosi e inconsueti dall’esito tragico. Conservava alcuni ritagli di giornale sulla storia di una ragazza americana di ventitré anni rimasta uccisa a Rafah, striscia di Gaza, nel corso di un’azione di protesta pacifica, nel marzo 2003. Si era frapposta tra le ruspe israeliane e la casa di un palestinese che doveva essere demolita dall’esercito. Un bulldozer la travolse, la ragazza morì quasi subito. Si chiamava Rachel, la si vedeva bionda e sorridente nelle foto pubblicate sui giornali e diffuse nel web. Qualcuno basandosi su lettere e diari della giovane aveva composto una pièce teatrale, rappresentata a Londra e New York: Il mio nome è Rachel Corrie. A. contava di vederla, prima o poi. Conosceva parte dell’ultima lettera scritta dalla giovane alla madre. “Tutto questo deve finire. Dobbiamo abbandonare il resto e dedicare le nostre vite per far sì che tutto ciò finisca. Non credo che ci sia niente di più urgente. Voglio poter ballare, avere amici e innamorati e disegnare comics per i miei compagni. Ma, prima, voglio che tutto questo finisca. Ciò che provo si chiama incredulità  e orrore. Delusione. Mi deprime pensare che questa è la realtà  fondamentale del nostro mondo e che, di fatto, tutti partecipiamo in ciò che succede. Non era questo che io volevo quando mi fecero nascere. Non era questo ciò che sperava la gente di qui quando venne al mondo. Questo non è il mondo in cui tu e il mio papà  volevate che io vivessi quando avete deciso di concepirmi.”

Non siamo nati per questo. Da sempre, A. si serviva di questa frase per criticare o rifiutare ciò che non poteva accettare del mondo. Diceva proprio: non sono nata, non siamo nati per questo o quello, per far così o in quell’altro modo… ma per tutt’altro. Le sembrava un modo radicale e giusto per dire quel che pensava, in forma chiara, netta. Non siamo nati per diventare questo.

Con la piccola sentenza custodita nella mente ancora opaca si stirò a lungo nel letto scalciando infine via il lenzuolo bianco, chiuse gli occhi un’ultima volta prima di piegarsi di fianco e toccare il pavimento che sapeva fresco, poi con la faccia sul cuscino che odorava dei suoi capelli puntò il gomito e il ginocchio sul materasso, facendo forza sulle mani per tirarsi su e conquistare la posizione seduta. Oscillò una o due volte all’indietro, tentata dal richiamo quasi irresistibile del giaciglio morbido. La finestra aperta lasciava filtrare una lama di luce lattiginosa e fresca che lei percepì mentre preparava al nuovo giorno i suoi occhi, così poco desiderosi di registrare le informazioni offerte dal mattino crescente. Volevano solo chiudersi del tutto e riprendere a dormire, proprio come il resto del corpo, braccia e gambe e sensi e cuore che chiedevano giusto una piccola dilazione, Ancora un momento per favore, un sovrappiù di vita sognata che il corpo intero avrebbe speso ninnandosi al ritmo lento del respiro, lieto e pronto a scordarsi di sé.

Però A. superava di buon grado e con meditata lentezza questi momenti di indolenza e sciopero della volontà , poiché tutto le piaceva in quei risvegli estivi. Le piaceva scoprirsi illuminata dai primi intermittenti bagliori di coscienza, chiedersi ogni volta immersa in una stupita semioscurità  interiore Chi sono?, e attendere la risposta con fiducia e una curiosità  che era residuo vivente dell’infanzia; le piaceva riconoscersi lentamente, confermare a un immaginario interlocutore e più ancora a se stessa Ah questo è il mio braccio ciao braccio e questa ecco è la mia gamba lo so perché la sto piegando e mi piace sentire come si muove dunque ciao gamba, questo è il mio viso sul lenzuolo e così so anche dove sono, questo è il mio letto e adesso dormo ancora un po’, e poi mi risveglierò e dormirò ancora sempre con gli occhi assolutamente chiusi, a presto, mentre il processo inconscio del risveglio percorreva i suoi nascosti sentieri sino in fondo, e lei si trovava a passare in rassegna con un compiaciuto Ah, ecco! gli elementi confermati del suo io, cellule sinapsi e pensieri che la omaggiavano sfilando allegri in parata come soldati in pace, svelandosi alla coscienza ricomposta strato dopo strato, percezione dopo percezione, a ogni istante permettendole di recuperare frammenti di cognizione di sé. Ogni gesto, ogni sensazione era una singolare combinazione di materia e sogno, in un impasto tanto buono al tatto e al gusto interiore che scioglierlo era operazione delicata e quasi sacra, un piccolo, ritmato e privato rito del cuore. Si diede ad arruffare e ravviare i capelli, concedendo ancora una proroga agli occhi semichiusi. Anzi li strizzò e se li stropicciò ben bene, con l’amorevole cura del caso.

Poiché tardava molto a prender sonno in quelle notti d’estate così strenuamente calde, il senso della vista sopportava un supplemento di lavoro, che A. trovava piuttosto impegnativo. Restava a lungo con gli occhi spalancati sul buio, l’udito teso ad avvertire lo scalpiccio ovattato dei passi lentissimi del tempo. Avolte teneva la radio accesa a volume molto basso per facilitare una possibile discesa nel sonno; più spesso rimaneva semplicemente immobile, distesa sulla schiena a gambe larghe, o abbandonata bocconi a mordicchiare il cuscino e muover le braccia in gesti ampi e lenti come per nuotare, respirando piano in pacifica attesa del sonno, lasciandosi sorprendere da rumori e voci della città  notturna. Seguiva senza fretta i contorni indefiniti delle cose, ricostruiva la forma intera degli oggetti da piccoli dettagli rivelati dalle luci intermittenti delle rare auto che passavano. Sveglia, viveva in un mondo che era già  sogno: era questo il pregio così lentamente distillato della notte. Avolte estenuata dall’afa si alzava, con gesti lenti e cauti da esploratore in terre infide lasciava a malincuore il letto per tastare coi piedi nudi il pavimento scuro. Sentiva allora i piccoli solchi regolari delle mattonelle fredde, si muoveva quasi alla cieca fino a toccare il lavabo, senza neppure far luce apriva il rubinetto per bagnarsi viso e collo, asciugava alla meglio le mani e con le perline umide sospese sulle guance e tra le ciglia ciondolava verso la cucina, dove apriva il frigorifero per riempire un bicchiere d’acqua mentre con la coda dell’occhio verificava l’esistenza della stanza, a stento illuminata dalla piccola luce interna. Col braccio posato sullo sportello aperto beveva un primo lungo sorso, sperando di veder mutare l’aria calda della notte in un lago d’acqua fresca e pura. Riprendeva fiato, beveva alla bottiglia, si lasciava alle spalle il tonfo molle del frigo richiuso, si muoveva nuovamente nella casa buia e ancora beveva, vuotando quasi per intero il bicchiere, prima ancora di aver compiuto il lento cammino di ritorno. Si passava la lingua sulle labbra per salvare il sapore dell’ultimo sorso prima di stendersi di nuovo, e mentre afferrava il cuscino per risistemarlo sentiva ancora l’ultimo fresco contatto dell’acqua che scivolava dalla gola in pancia, il contrasto col calore della pelle che già  asciugava. Il letto alto e largo, che costituiva per lei l’attrattiva maggiore della metà  di appartamento presa in affitto da pochi mesi, era come un porto sicuro da cui muovere ogni notte per attraversare territori inesplorati, in viaggi di cui non avrebbe mai conosciuto né principio né fine, seminari accidentali di archeologia dell’anima che le lasciavano in dote piccole fortune in forma di schegge luminose, immagini provenienti da chissà  quali mondi, ricordi come fili intrecciati da sciogliere con pazienza durante il giorno, sensazioni di sé e della vita di una profondità  impossibile da decifrare, eppure essenziali e buone in un modo che non sapeva dire. Infine il lungo dormiveglia si concludeva naturalmente, dopo le tre l’aria cambiava, un alito di vento fresco sembrava mutare la qualità  della notte, la stanchezza e la monotonia delle sensazioni vincevano il caldo declinante, e tutte le volte senza avvedersene lei scivolava nei limbo dei sogni, riprendendo a visitare paesaggi immateriali negati alla luce del giorno. Così, in quella città  e in quella estate, nella casa silenziosa e sul far del mattino, con un gusto mai smentito per l’abbandono e l’oblio di sé, A. si addormentava.