L’angelo siede sul boccone spartito

Autore: Marinella Caocci, Massimiliano Pisu
Anno: 2013
Pagine: 204
ISBN: 978-88-98692-06-4
Prezzo:€ 13,00
Note: nd

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Il libro

L’angelo siede sul boccone spartito, titolo italianizzato della massima dialettale “in su bucconi sparziu s’angelu sin ci sezziri”, è il secondo romanzo giallo della coppia d’autori Caocci-Pisu.  Come nel primo A Pradu Pintau (Aipsa edizioni 2011) la trama di fantasia s’innerva in un ordito storico, che regala al racconto il valore della ricostruzione del tessuto sociale della città della prima metà del Novecento, del dopoguerra e agli albori del fascismo. Casteddu ’e susu dei palazzi di marchesi e baroni, molti già decaduti, e di professionisti affermati, giudici, medici, preti e militari. Casteddu de is bascius, la città popolare dei quartieri di Villanova con botteghe artigiane e ancora orti, di Stampace polveroso ingresso dal Campidano e di Marina con il porto. Tutti però con un crocevia pulsante che è Su Mercau Becciu, il mercato vecchio.

Un affresco di Cagliari città di provincia, che comincia a respirare l’aria della modernità ma che conserva ancora sentori e sentimenti di paese, e come gran parte dei centri urbani dell’Italia meridionale è un mosaico gerarchico di (pochi) ricchi, nobili, professionisti, mercanti e (molti) poveri, impiegati, gendarmi, artigiani, operai, pescatori, bottegai, carrettieri, domestiche, contadini che abbandonano la campagna, prostitute, di senza lavoro, di malandati reduci del glorioso sforzo bellico, di mendicanti, furfanti e di invalidi come Aurelio lo Zoppo, col doppio lavoro, strillone al mattino e sguattero notturno di una bettola di Marina, e di figli della strada, orfani o figli di genitori ignoti o assenti, come Francischinu Cocco, il re dei “piccioccheddus de crobi”, i ragazzini con la cesta che fuori del Mercato, al porto e alla stazione ferroviaria, aspettano per qualche soldo di trasportare spesa, merci e bagagli a domicilio.

È in questa Cagliari, gerarchicamente composita, che l’evento straordinario della visita delle Loro Maestà, il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena di Montenegro sembra accomunare tutti, ricchi e poveri. Sembra…

La Prefazione

I corali entusiasmi, la generale fiducia e spensieratezza, spesso solo esibite, che avevano caratterizzato la Belle Époque sono stati bruscamente spazzati via dalla Grande Guerra. Passati gli orrori della trincea, anche a Cagliari si ritorna alla normalità: agli albori del fascismo e nei primi decenni del Novecento, la città vive una tranquilla esistenza di provincia, annoverando come gran parte dell’Italia meridionale una manciata di benestanti e molti indigenti, impiegati, artigiani, operai. Al palcoscenico della strada si affiancano l’opera lirica, il cinema, la passerella di via Roma e del Corso, il Poetto, le colonie marine, nuovi negozi e mirabolanti costruzioni. Ma il tributo pagato nella guerra è stato troppo alto e anche in città già si comincia a reclamare per il sacrificio degli eroi sardi la concessione dell’autonomia all’isola, un riconoscimento politico della dignità conquistata col sangue.

Tra riflessi di gloria e idee rivoluzionarie, la vita continua, solo in apparenza pacata. È in questo clima che la visita dei Reali a Cagliari viene vissuta come un evento straordinario che rende tutti, ricchi e poveri, uguali al loro cospetto. “Il Re Vittorioso accompagnato dalla Regina Virtuosa”: così annuncia l’arrivo di Vittorio Emanuele II e della Regina Elena, Aurelio lo Zoppo, uno dei deus ex machina della vicenda narrata in questo libro, che “faceva lo strillone per le vie del centro o ai piedi del monumento a Carlo Felice” e alla sera lo sguattero in una lurida bettola della Marina.

Gli strilli, suoi annunci tanto strampalati quanto efficaci (del tipo “ombrelli per uomini verdi” o “gonne per donne lunghe”), immagine di una società bonacciona che si lascia suggestionare facilmente, introducono ogni capitolo e costituiscono il file rouge della narrazione. Infatti, grazie a tale felice artifizio scenico ideato dagli autori, le tappe dell’intreccio si susseguono l’un l’altra con naturalezza e senza soluzione di continuità, anticipate dal punto di vista ironico e beffardo del singolare cronista. Sullo sfondo altrettante quinte davanti alle quali, però, non occupa il palcoscenico la Cagliari bene, la Cagliari alta, quella di Casteddu ’e susu dove “si affacciano i palazzi della nobiltà, dei marchesi e dei baroni con i loro nomi roboanti e spagnoleggianti” e dove abitano anche il medico Oliviero Artizzu e il giudice Antonio Masala, “noto uomo di legge con il vizio delle belle donne” con la signora Benedetta sua moglie, serena e quasi altera nell’aspetto esteriore ma consumata dentro.

È un mondo ben più vivo e palpitante, invece, quello della Cagliari popolare, la Cagliari ancora paese (nonostante i suoi 70 mila abitanti) che si racconta attraverso i suoi vividi personaggi, articolata negli altri rioni storici: Stampace e Palabanda, allora l’ingresso alla città, con la porta di S’Ecca Manna, dove “albergavano lussuria, orgoglio, sfrontatezza e miseria, una miseria infinita” e dove “le case, vecchie e stanche, a ogni colpo di vento rischiavano di venire giù”; la Marina con il porto, qualche “lurida trattoria” e l’Asilo di via Baylle gestito da suor Maria, dietro la quale si riconosce la beata Giuseppina Nicoli dei piccoli diseredati di Cagliari; e poi Villanova, con le sue botteghe artigiane, cuore pulsante della società che produceva. Su tutto regna incontrastato Su Mercau Becciu, con i suoi due fabbricati: uno “di vetro e metallo” per frutta e verdura; l’altro, “con il colonnato in granito, per carne, pesce, pane e dolci”.

In quei rioni formicola di vita propria un’autentica corte dei miracoli: pescatori (come Efisio Ogu ’e triglia e il suo vecchio commilitone Diego); artigiani (l’effeminato barbiere di Sa Murialla e il suo degno nipote Bartolomeo); bottegai (la fornaia Mariolina con la figlia Lella, la signora Rosa e il suo negozio di leccornie o Gino Pintor “che si era improvvisato venditore di tinture per capelli bianchi e pillole afrodisiache”); carrettieri (Totore Verapezza, il gelataio), giovani domestiche (Iubannedda Burrai, la servetta dei Masala, concupita dal padrone e quindi odiata dalla padrona e protagonista del delitto su cui è imperniato questo giallo); prostitute (Mirella, un’autentica “nave scuola” per i ragazzi ancora inesperti); contadini (il vecchio ortolano Puddaemurtaucci); e ancora: mendicanti, truffatori e in genere persone di malaffare. Tutti, però, accomunati da “un clima di mescolanza sociale che non ammetteva distinzioni”, in nome della solidarietà, della condivisione nel bene e nel male, della fittissima rete di rapporti umani agevolata dalla frequentazione giornaliera e dalla comune sorte. Non a caso “In su bucconi sparziu s’angelu sin ci sezziri”, l’angelo siede sul boccone spartito, per benedirlo, è il “dicciu” che ha ispirato il titolo del libro. Ma è anche un altro il boccone che, in modo meno nobile e più macabro, alcuni degli attori di questa vicenda finiscono per spartirsi: è la vittima designata, che più d’uno desidera e vuole eliminare al tempo stesso, per motivi differenti ma ugualmente perversi.

Baricentro di questa variegata umanità sono però loro, is piccioccheddus de crobi, i ragazzini con la corbula, perennemente… in agguato fuori del Mercato Vecchio, ma anche nel porto e nella stazione ferroviaria, in attesa di qualche spesa da recare a domicilio. È l’originale fenomeno di costume che aveva preso piede a Cagliari a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, successivamente travolto dal progresso e dai nuovi dettami della società di massa: erano i “figli della strada, svelti di gambe e di mano, nutriti dagli avventori di quella rigogliosa struttura per ventri capienti che affidavano a loro il dolce peso delle generose spese quotidiane”. Come in ogni corte dei miracoli degna di tale nome, anche la banda di quei ragazzini ha eletto virtualmente il proprio re: si tratta di Francischinu Cocco, che “frequentava quel posto da quando aveva sei anni e ora che ne aveva compiuto quindici lo considerava un po’ come casa sua e non riusciva a immaginare un giorno” senza “raccattare al mercato dame che avessero bisogno di trasportare la spesa fino alle proprie dimore, per qualche soldo”.

L’angelo siede sul boccone spartito può ritenersi un romanzo picaresco, quindi, incentrato su un antieroe, un ragazzo di bassa estrazione sociale, che “una suora si è preso come figlio spirituale, senza pretendere niente in cambio”, dato che “genitori incerti e assenti” l’avevano lasciato abbandonato a se stesso in un mondo ostile. Mondo nel quale, per sopravvivere, si è costretti a compiere anche delle azioni illecite e a venire a mille compromessi, fagocitati dallo stridente contrasto fra gli strati ricchi della popolazione, che predicano un perbenismo di maniera ma poi restano impuniti per i loro soprusi a danno dei più sfortunati, e questi ultimi, che invece pagano per tutti. Ma non per questo viene pregiudicata l’intrinseca bontà del personaggio: nell’abitazione di Francischinu (il Lazarillo de Tormes della situazione), una “fotocopia venuta male delle altre abitazioni del borgo” di Palabanda, talvolta avevano dormito anche dieci persone, e se soltanto per un momento la sua naturale propensione alla generosità sembra venir meno, oppressa dal timore di non poter tornare a vivere l’unica vita che sa immaginarsi, subito dopo si prodiga con slancio ritrovato per proteggersi e proteggere, per condividere ancora una volta gioie e dolori.

Anche i toni della prosa sono propri della letteratura picaresca: quello comico che si nota nelle brevi notizie di cronaca e negli spot gridati (e salacemente commentati!) da Aurelio lo zoppo; quello serio che si respira nella triste vicenda di Iubannedda o nelle pene di Gavino Pau, il fattore dei Masala, e di suo figlio Tonio, terrorizzati alla prospettiva di perdere la “loro” tenuta che i padroni pare vogliano vendere; quello tragico che permea la lite tra i coniugi Masala alla presenza degli inquirenti; quello eroicomico di cui è pervasa la quasi grandguignolesca iniziazione subita da Bartolomeo Zucca per essere ammesso a tutti gli effetti nella banda degli “allegroneddus”; infine quello elegiaco, che accompagna l’amore sbocciato all’improvviso tra Iubannedda e Tonio Pau, un amore breve ma “coinvolgente fino a scuotere le membra anche di chi, soltanto pochi istanti prima, non avrebbe mai creduto di lasciarsi andare alla passione”.

Come A Pradu Pintau, il romanzo col quale gli autori hanno esordito nello scivoloso ma esaltante campo della letteratura, anche questo si fa apprezzare per lo stile piano e colloquiale che calamita fino all’ultima pagina l’interesse e la curiosità del lettore, nonché per la profonda dimestichezza con l’ambiente in cui si svolgono le vicende narrate, frutto di una propedeutica documentazione, puntuale e scrupolosa.

Paolo Berna

Qualcuno degli strilli bislacchi che aprono i capitoli

Cap. 1

Concittadini,

imbandierate le vostre case (chi ne ha),

illuminate le vostre finestre (se tenete la corrente),

per onorare il Re vittorioso e la Regina virtuosa!

Cap. 2

Oggi al mercato:

ombrelli per uomini verdi e gonne per donne lunghe!

Accorrete, accorrete…

E ancora: giarrettus, spareddas, murmungioni e triglie lucenti

come mamma li ha fatti!

Cap. 3

Al porto, nel braccio di ponente,

ogni giorno, proprio dove sbocca la cloaca,

si fa raccolta di arselle e si pesca

usando spesso dinamite!

Puresciusu e sfrontausu puru.

E le guardie? Boh…

Cap. 12

Oggi, al mercato,

avvicinatevi da Sandrino Puddigheddu,

per tutti, polli freschi vivi

uccisi in faccia.

Cap. 15

A tutto c’è rimedio

tranne che alla morte!

All’agenzia di pompe funebri dei fratelli Zedda

gli affari vanno a gonfie vele.

È sempre aperto per lutto…