La bimba di madame fransé

Autore: Anna Castellino
Anno: 2015
Pagine: 317
ISBN: 978-88-98692-33-0
Prezzo: € 16,00
Formato: 15×21
Note: -

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L’avvio del libro

Si chiamava Cesira Innocenti e veniva da Marliana, quattro case tra i monti di Pistoia dove non si mangiava altro che necci.

Questo, almeno, era ciò che diceva lei ricordando come la fame sapesse rendere gustose quelle schiacciate semplici, fatte soltanto d’acqua e farina di castagne.

Di carne non se ne vedeva proprio – raccontava ai nipoti, tre ragazzini che i monti di Pistoia non potevano vederli nemmeno col binocolo e che la stavano a sentire senza perdere mezza parola, felici e contenti, e pure compiaciuti, convinti com’erano che non ce l’avesse nessuno una nonna così, una nonna che non si dispiaceva per nulla di stare lì a dire e a spiegare, e anche a ripetere le storie di quella sua vita che ne valeva mille, che le aveva insegnato ogni cosa del cielo e della terra, tutta l’umana sapienza e soprattutto ciò che di

tanta sapienza serviva per davvero.

Nel suo paesino su quei monti lontani – raccontava dunque Cesira – solo ogni tanto capitava che qualcuno mettesse in pentola una gallina e allora l’odore del bollito si spandeva per le strade, attirava sciami di bambini che lo acchiappavano coi nasi, per farselo entrare dentro a confortare i sensi prima che quel maligno se ne fuggisse in cielo. Di funghi, che pure nei boschi c’erano di sicuro, lei non sapeva, a casa sua li temevano e quindi meglio i necci, che non hanno mai ammazzato nessuno.

Pensava a lungo prima di ammettere che qualche volta doveva esserci stata una tazza di latte, un uovo, un piatto di minestra, e l’aringa, accidenti, quella sì, l’unico pesce che arrivasse fin lassù. Ci arrivava eccome, anche se nel salire dal mare ai monti cambiava nome e diventava una salacca, dato che i montanari non si accontentavano mai di come parlava l’altra gente e dovevano ribattezzare ogni cosa a modo loro. Comunque ne andavano matti, se ne leccavano i baffi e anche le dita.

Ma per il resto, insisteva Cesira, necci e solo necci.

– Il pane compariva in tavola solamente quando tornava mia madre. Parola d’onore. Ma non dovete immaginare le rosette belle salate che noialtri si mangia adesso, qui nell’isola. Il pane di là era insipido,  come tutto quello che l’Ester ci dava. E non è che mamma mia fosse cattiva. Nossignori. Piuttosto era indifferente. Sdegnosa, si può anche dire. Sembrava guardasse tutto dall’alto di un balcone e non sorrideva mai. Eppure era bella, anche da vecchia, il viso liscio come la porcellana perché se lo bagnava con la prima piscia del mattino.

– Puuu… puzzipuzzi, nonna!

– … ma tu glielo dicevi che era puzzìdda? O nonna, confessa che glielo dicevi puzzipuzzi e puzzìdda…

– … glielo dicevi all’Ester, nonna?

– Ohia! A Marliana quelle parole non si conoscono mica. Non le conosce nessuno. Sono parole… Dite bene: segrete! Segretissime. Sicuro. Parole inventate dagli antichi di quaggiù. Sapete gli antichi, quelli delle torri di pietra? Proprio loro le hanno inventate, e nei secoli dei secoli se le sono dette l’un l’altro a bocca stretta. E non le hanno mai pronunciate fuori dalla nostra isola, non ne hanno pronunciato una che fosse una, ad anima viva.

– E allora come glielo dicevi all’Ester che per quel fatto della

piscia tu la schifavi?

– Ma quando mai! Balossi e bischeri che siete. Quando mai qualcuno al mondo ha schifato la propria madre? Non se ne parla. Un porco che è un porco la sua non la schifa manco per niente. E io ero orgogliosa di quella mamma bella, che quando poi la piscia s’era asciugata la lavava via. Mi mandava apposta a prenderle l’acqua giù alle Fontane, e al contrario delle altre donne che sapevano di aringa lei profumava di sapone forestiero, un’essenza che non ho sentito mai più.

– Però il suo pane era insipido, non aveva sapore…

– No che non ne aveva, come non ne avevano le sue attenzioni per noi figli e per il marito, quel poveruomo del mio babbo.

Di suo babbo, Cesira parlava poco.

Quando lo nominava lo sguardo le si perdeva per un attimo, come a respingerne il pensiero nel vuoto, in un ripostiglio, un bugigattolo o chissà cos’era, insomma in un pertugio nel nulla che conosceva solo lei. Solo lei ne conosceva l’accesso e solo lei decideva quando e quali lasciarne uscire, dei ricordi che ci teneva imprigionati dentro:  i ricordi lontani bagnati di sconfitta, i rimpianti, le memorie intrise di un’impotenza triste che rischiava di stonare tra i toni epici con cui amava dipingere le sue povere avventure.

Non consentiva proprio a nessuno di mettere il naso in quell’anfratto dell’animo, nemmeno per una sbirciata. E tuttavia in famiglia si sapeva ugualmente come l’aveva organizzato, quel pertugio, si sapeva che sulla destra, nel reparto capeggiato dal suo povero babbo, aveva stipato ben stretti in un fascio tutti i rimpianti toscani, quelli della prima infanzia sull’Appennino.[…]