LUNAESOLE

Autore: Marinella Caocci
Anno: 2015
Pagine: 227
ISBN: 978-88-98692-32-3
Prezzo: € 14,00
Formato: 15×21
Note: -

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L’avvio del libro

Della mia infanzia ho molti ricordi. Il merito è di nonna Assunta che li ha moltiplicati aggiungendo alla vita che stavo vivendo un’altra esistenza fatta del suo vissuto, che mi raccontava puntualmente ogni sera, davanti al focolare, prima di andare a dormire. Quelle storie io non mi limitavo ad ascoltarle. La mattina seguente correvo in paese a cercare qualche indizio da cui incominciare per replicarle nella mia realtà, questa volta da protagonista, come se accadessero per la prima volta. E il più delle volte ci riuscivo, perché la vita è identica a se stessa, va a cicli, e tra la gente che abita su questa terra ci sono sempre persone speciali, nel bene e nel male.

Se mia nonna mi riferiva di un uomo che se ne andava in giro per le vie con due grosse pietre in mano, una dipinta come una faccia allegra, l’altra con il disegno di una bocca dagli angoli all’ingiù, che passava l’intera giornata a farle parlare fino a quando la pietra felice veniva contagiata dalla tristezza dell’altra e la pietra triste diventava giuliva, io partivo alla ricerca di un povero cristo, tra quelli che nel mio paese di sole e febbri facevano a gara a conquistarsi il primato di maccu che cabaddu, e rifacevo la storia. Due pietre in mano scarabocchiate con un po’ di carbone, e mi divertivo a chiacchierare con pazzi, sassi e ricordi.

I racconti di nonna Assunta erano linfa vitale per me perché avevano dentro la forza di spezzare la catena di tragedie che strozzava la mia famiglia. Tutta la gente di Gallura non se la passava bene, ma loro non avevano le storie di nonna Assunta.

In due anni, la nostra terra si era riempita di croci. Non tanto, o non solo, quelle dei soldati morti sui vari fronti della Grande Guerra; a fare più vittime era stato il male oscuro e strisciante che la popolazione aveva battezzato con deferenza il Fiero Morbo. Febbri che avevano bruciato la già arida terra, sempre spaccata dal sole e divorata dalla salsedine. Febbri vive nei ricordi dei galluresi che abitavano negli stazzi, dei pastori delle alture o dei cittadini di Terranova. La Spagnola, quel male che veniva da lontano, aveva preso dimora nelle case, tra le famiglie, s’era insinuato nei campi, era traboccato nelle vie dei borghi, si era caricato di nuova linfa lungo i litorali. E continuava a mietere vite, a migliaia: croci, appunto, che spuntavano come funghi dopo un acquazzone, non senza aver prima dilaniato i corpi delle vittime che si contorcevano per la tosse e i dolori lombari e finivano l’agonia con i polmoni traboccanti di sangue. La Spagnola era subdola, si mimetizzava tra la gente. Mio padre continuava a ripetere che l’umanità non aveva conosciuto pandemia più grave, che neanche la Morte Nera poteva abbatterne il funesto primato. A confronto, i decessi della guerra erano ben poca cosa.

Per la mia famiglia ciò era dannatamente vero. I miei tre fratelli, Francesco, Giacomo e Armando, tutti tornati sani e salvi dal fronte, se li era portati via lei, la Grande Influenza. Avevano vinto la malaria, la tubercolosi e perfino il tracoma, ma la miseria dei mesi invernali aveva dato man forte alla nuova febbre e la mia famiglia aveva miseramente perso la battaglia. L’acqua scarseggiava, si faticava a trovare anche i viveri di prima necessità, in paese non c’era un medico e neppure il chinino. Il fiero morbo s’ingigantiva senza niente e nessuno a contrastarlo. Mio padre sosteneva che i miei fratelli l’avevano presa in guerra, la morte, e l’avevano trasportata giù da noi mascherata da debolezza.

I miei fratelli morirono a distanza di due giorni l’uno dall’altro, dopo poche settimane di agonia. Non ci dettero neanche il tempo di piangerne uno degnamente, che avevamo da seppellirne subito un altro. […]