Sartiglia thriller
(La maschera d’argento)
Autore: Antonio Turnu
Anno: 2012
Pagine: 204
ISBN: 978-88-95692-51-7
Prezzo: € 13,00
Note: Formato 12×20 / Foto di copertina di Enrico Spanu
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Il Prologo
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La Sardegna era squartata in Giudicati: Calari, Torres, Gallura e Arborea.
In una notte di fine inverno sulla pianura stretta a levante dei monti del Sulcis, fuori dall’accampamento, seduto a gambe incrociate masticava l’astio come la radice di liquirizia che aveva in bocca. L’animo sfilacciato traluceva nelle sue pupille ellittiche di serpente.
Il fuoco gli lanciava lingue sulle guance e disegnava un silenzio di morte in fronte. Schizzò uno sputo nero. Poi con un colpo di bastone sulla brace, sviluppò uno sciame di scintille che spegnendosi nei contorni stagliati del castello, gli ricordò che lui mai avrebbe potuto impugnare la spada, indossare l’armatura e cavalcare: era uno stalliere. Doveva badare al cavallo del suo cavaliere: biada acqua e striglia, nient’altro.
Era dura prendere sonno, sapendo che l’indomani i suoi signori in attesa di assaltare il castello di Villa Iglesia, avrebbero giostrato con le truppe d’Aragona alla Sortijlla: a velocità sfrenata infilare con la spada o con la lancia un anello appeso a un filo ad altezza d’uomo a cavallo. Sotto il comando del Componedor, il maestro di campo della corsa.
Lo stalliere non avrebbe mai saputo che da allora la Sartiglia si sarebbe corsa ogni anno a Oristano, sulla strada della Cattedrale dopo il canto del vespro del Capitolo, tre giorni prima delle Ceneri, nel momento di passaggio tra l’inverno e la primavera, con su Cumponidori erede e memoria dei Signori del Giudicato d’Arborea. Che i Gremi dei Contadini e dei Falegnami avrebbero assunto il compito di perpetuare la tradizione. La corsa sarebbe stata alla stella, iniziata con la vestizione de su Cumponidori su una sedia sopra un tavolo. Che giovani vergini in costume sardo gli avrebbero cucito gli abiti senza lasciare aperture – gli spiriti non sarebbero entrati – e lo avrebbero vestito di pelle, camicia ricamata a sbuffo, borchie d’argento e fiocchi di seta con la maschera carnea androgina, seria e statica. Sul capo un velo e un cilindro.
Il majiorale del gremio gli avrebbe offerto la spada con la destra in segno di giuramento. Su Cumponidori avrebbe montato in sella e sullo stesso tavolo della vestizione avrebbe smontato a fine corsa: mai mettere piede in terra, altrimenti la sacralità acquisita con la vestizione sarebbe stata annullata, come un fulmine quando si scarica a terra.
Affiancato dai cavalieri Segundu e Terzu, con in mano uno scettro di viole mammole avrebbe benedetto la folla, sotto una pioggia di grano e fiori, rulli di tamburi e squilli di trombe. Al passo in sfilata con altri centoventi cavalieri in costumi medioevali mascherati, verso il palazzo dei Giudici per il torneo.
Dopo l’incrocio delle spade con su Segundu, sotto la stella appesa con un nastro verde, avrebbe corso come il vento per centrare il foro. Così altri cavalieri dopo di lui. La Sartiglia avrebbe abbassato il sipario con la prova de su stoccu, un’asta di legno riservata a su Cumponidori e su Segundu.
Dalla buona riuscita della corsa sarebbero dipese le sorti del raccolto, perché la stella avrebbe simboleggiato il principio generatore e l’asta del Cumponidori il potere fecondante: fallire il suo compito avrebbe reso sterile la terra. Comunque avrebbe riparato con la benedizione delle mammole al galoppo, disteso schiena sul cavallo: sarebbe stata la morte dell’inverno per la rinascita della primavera.
I cavalieri si sarebbero ritirati fuori delle antiche mura, per correre le spericolate Pariglie, finché la sera avrebbe fiammeggiato il cielo e si sarebbe presa la Sartiglia. Mentre su Cumponidori sarebbe ritornato dove tutto aveva avuto inizio: con la svestizione che lo riportava uomo fra i mortali. E per lui sarebbe stato tutto un sogno.
Un sogno ripreso il giorno dopo dai ragazzini cresciuti a pane e Sartiglia: avrebbero corso scalzi nella strada di fango con i cavalli di canna tra le gambe dalle ginocchia sbucciate, una pertica come spada per centrare il foro di una stella di cartone appesa a un filo, mentre altri col moccio nel naso leccato dalla lingua, avrebbero battuto tamburi di latta, che odoravano di pomodori pelati.
Fino all’anno prossimo, quando nell’aria a Oristano ci sarebbe stata Sartiglia da tagliare a fette.
Lo stalliere non poteva sapere che sarebbe bastato farsi prestare un cavallo per poter correre alla Sartiglia: avrebbe dovuto nascere secoli dopo per dimostrare la sua abilità .
Quel morso gli digrignava il cervello e il sonno. Una sprangata di maestrale gli raggrumò le idee e drizzò i nervi. Sferzò il fuoco che gli lameggiò sulla faccia una maschera di brace. Si alzò e uscì dal suo cielo di stelle verso l’accampamento dei signori. Strisciò nel buio fino alla tenda del suo cavaliere. Russava sulla barba, sfatto di giostra e di vino: un facile bersaglio.
Prese la spada già sguainata, lo guardò nel solco che gli attraversava una guancia. Sollevò la spada e la tenne sospesa sulla sua indecisione.
Lasciò perdere.
Andò dal cavallo che non fece un nitrito. Lo cavalcò e diresse verso il castello, galoppando e allungando il braccio come se vedesse davanti l’anello che doveva centrare.
Il foro gli sembrava vicino. Tese la spada: era fatta.
Ululò come demonio così a lungo che una freccia di balestra scoccata da dietro uno dei merli del castello gli si conficcò in bocca e uscì dalla nuca. Finì così la sua prima e ultima Sortijlla.
Lo stalliere non avrebbe mai saputo che un altro, come lui, non avrebbe impugnato la spada, cavalcato e infilzato la stella.