Sergio Atzeni

e l’arte di inanellare parole

Autore: Sylvie Cocco, Valeria Pala, Pier Paolo Argiolas
Anno: 2015
Pagine: 280
Fotografie: in b/n
ISBN: 978-88-98692-21-7
Prezzo: € 20,00
Note: Le immagini sono di Giovanni Coda, progetto Urban/Industry 2014

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La presentazione

dei curatori

Il volume restituisce in parte gli interventi, le riflessioni, le feconde immagini e gli spunti che hanno accompagnato le tre giornate di studio sulla figura e l’opera di Sergio Atzeni (Un cantastorie in blues. Sergio Atzeni dieci anni dopo, Cagliari, 13-14-15 ottobre 2005). Ai contributi della manifestazione del 2005 – organizzata dall’Associazione culturale Portales e dedicata allo scrittore sardo nel decennale della sua morte – si sono aggiunti altri saggi di rilevante contiguità, che, al pari e insieme ai primi concorrono a offrire da ottiche diverse e da ambiti disciplinari svariati un’immagine delle relazioni, degli intrecci, delle interferenze e delle contaminazioni che hanno nutrito l’opera di Sergio Atzeni, determinandone altresì originalità, complessità e spessore che richiedono ancora ricerche e approfondimenti. I contributi che compongono questo volume – distribuiti in tre sezioni distinte ma strettamente interconnesse – disegnano nel loro snodarsi una lettura dell’opera atzeniana che potremmo definire dialogica, in quanto viene costantemente sottolineato il suo porsi al confine tra varie discipline e arti e in quanto viene messa in luce quella visione del mondo che la sostanzia e che è frutto di un’interazione pluralistica fra varie lingue e culture. La riflessione sulle lingue e sui linguaggi – come modello di interpretazione del mondo, come analisi delle differenze e dei rapporti politici e culturali tra periferia e centro, come rete di rapporti e relazioni che riguardano i concetti di nazione, di letteratura e d’identità – largamente presente nell’opera di Atzeni, si riflette anche nei diversi contributi, che privilegiano di volta in volta la pluralità dei colloqui possibili fra letteratura e letteratura, fra scrittura e traduzione, fra letteratura e storia, letteratura e pubblicistica, cinema e scrittura, letteratura e musica, lingua egemonica e lingua subalterna.

Il titolo del volume, Sergio Atzeni e l’arte di inanellare parole, si ispira alle pagine che seguono, un affettuoso omaggio a Giovanna Cerina. Le illuminanti parole del suo intervento al convegno del 2005 esprimono infatti la feconda compresenza di punti di vista diversi e complementari che hanno arricchito la manifestazione nove anni fa e ora il presente volume.

L’arte di inanellare storie

di Giovanna Cerina

Il titolo del mio intervento, L’arte di inanellare storie, riprende i versi di una poesia di Atzeni: «altro non so /

che inanellare / parole / una poi l’altra / in fila / canticchiando / in blues».

Inanellare parole, dunque: cioè sceglierle, metterle insieme, ordinarle, fino a farne un gioiello, fino a farne un testo che ha un significato ulteriore, elaborandole in una composizione.

Inanellare parole indica inoltre un carattere particolare dell’opera di Sergio Atzeni, cioè la sua grande apertura verso la sperimentazione. Giocare con le parole significa giocare con le parole italiane, le parole sarde, con le parole degli autori che traduceva; significa sperimentare fino a inventare lingue, come quella ipotetica che è già nell’Apologo, e che quasi con ironia lo scrittore formalizza nel glossarietto che chiude Passavamo sulla terra leggeri, cosicché le parole monosillabiche, che dovevano essere la lingua dei nostri antenati lontanissimi, non appaiano inventate ma ricostruite.

Inanellare parole vuol dire però anche inanellare storie – anche questo aspetto rappresenta la cifra sperimentale dell’autore: microstorie che vengono scelte da campi svariati amplissimi e che vengono catturate e memorizzate in un testo. Per esempio le storie di nonna Gigina, menzionata nel volume di versi, la quale, figlia della rivolta del 1906, da «vecchia inventò favole in versi per il bambino che non voleva prendere sonno», storie di vita vissuta, ma anche storie di animali, bisce, corvi. Un grande affabulatore, che certamente ha colpito la fantasia ma anche l’intelligenza di Sergio Atzeni, era il padre, che a tavola (è una testimonianza di Rossana Copez) amava raccontare aneddoti della sua vita, soprattutto storie di miniera. Le storie del padre, anche qui inanellate sotto forma di inchiesta, porteranno in seguito lo scrittore alla creazione di un genere moderno, frutto tuttavia della rielaborazione di forme antiche, come la piccola cronaca, l’aneddoto personale, e così via; ma una prima esperienza sperimentale è nella cura delle fiabe sarde compiuta insieme a Rossana Copez.

È chiaro allora che l’esperienza di scrittore di Sergio Atzeni si colloca tra oralità e scrittura. Per certi aspetti egli ripete a distanza di tempo, con mano più leggera, l’operazione fatta da Calvino, che, a sua volta, ha come riferimento l’esperienza di raccolta ed elaborazione della tradizione orale compiuta dopo l’Unità d’Italia.

Questo procedimento della trascrizione, della riscrittura della tradizione orale parte naturalmente da Omero, un riferimento che colgo al volo, autorizzata sia da una citazione dello scrittore, che ha sostenuto di essere «orgoglioso dell’intelligenza di Einstein e di Omero / come mi fossero parenti, / orgoglioso che abbiano saputo capire tanto, creare così», sia perché il libro a cui vorrei riferirmi in particolare, Passavamo sulla terra leggeri, vede il narratore come un Omero sardo, come un aedo che raccoglie miti, fiabe, leggende toponomastiche, racconti di riti iniziatici, racconti storici e leggendari, cioè una miriade di forme brevi che lo studioso André Jolles ha individuato e formalizzato nel suo lavoro sulle Forme semplici. Si tratta dunque di testi che sono già – proprio perché vengono dalla tradizione orale – fortemente formalizzati, come le fiabe (nessun testo narrativo è formalizzato come la fiaba, tanto che basta dire ‘C’era una volta’ perché tutti sappiano cosa si andrà a sentire). L’oralità è infatti come un filtro sensibilissimo, che espunge tutto quello che c’è in più e distilla come in un alambicco l’essenziale, l’essenziale di una forma. Così avviene nel mito, nel mito sacro, nella leggenda, così avviene per le forme brevi, che dovevano durare tanto quanto era ampia e potente la memoria, grazie all’ausilio di supporti che gli studiosi di Omero hanno individuato e chiamato ‘formule’, che servono ad agganciare testi che hanno un significato in sé, che hanno un senso compiuto, ma che diventano un altro testo quando, opportunamente aggregati, inanellati, costituiscono una grande storia.

In questi procedimenti si corre il rischio di ridursi a essere un semplice compilatore, ma se l’operazione è invece veramente creativa si diventa autore, poeta. Sergio Atzeni può collocarsi in un filone di autori che si muovono tra oralità e scrittura, è uno scrittore che passa attraverso l’esperienza del rapsodo. In questo senso egli si colloca nella tradizione italiana che va dal Decameron alle Piacevoli notti al Pentamerone, cioè nella tradizione delle grandi raccolte popolari che hanno trovato la genialità di un autore dotato di tutte le astuzie del narratore popolare e insieme dell’abilità e della raffinatezza dello scrittore.

Nella sua opera Atzeni mette a frutto, fin da subito, un’esperienza in cui agisce anche il codice visivo, evidente, per esempio, in Araj dimoniu. Nel successivo Passavamo sulla terra leggeri Atzeni dice del suo narratore Antonio: «la voce […] aveva portato immagini, avevo visto erbe e querce, pietre e cavalli, bambini e nuraghe». La capacità delle parole è tale da evocare, come fossero presenti, gli oggetti nominati. Questa forza evocativa è anche legata alla capacità di far risuonare le parole, il che rimanda a un altro aspetto dell’esperienza dello scrittore, che riguarda la conoscenza, la passione e l’interesse per la musica, in particolare quella moderna, dal blues al rock, ma anche quella tradizionale: e qui mi piace sottolineare l’interesse di Sergio Atzeni per la musica dei Tenores, che forse aveva le sue radici nella sua infanzia a Orgosolo, ma a cui ritorna con una nuova consapevolezza culturale nella maturità. Non a caso, in opere come Bellas mariposas, Atzeni riesce a far scaturire dalla scelta delle parole, dalla loro disposizione e perfino dalla punteggiatura musiche diverse, intrise di rock, di blues, di rap ma anche di tonalità sarde.

Per ritornare al discorso di Atzeni quale Omero dei nostri giorni, si può aggiungere una considerazione sull’affondo storico che lo scrittore affronta nella sua opera. C’è un momento di quest’esperienza che ha un ruolo importante nell’ideazione di Passavamo sulla terra leggeri, ed è quello dell’Apologo del giudice bandito, in cui Atzeni cerca di dare frammenti di storia a un’isola che per certi versi è stata rifiutata dalla Storia, ma che soprattutto è responsabile per averla rifiutata. Noi abbiamo vuoti enormi nella nostra storia e siamo responsabili e colpevoli di non aver voluto affrontare il nostro passato, per quanto lacunoso e doloroso sia, ed è in questo contesto che Sergio Atzeni interviene, inventando un romanzo delle origini che dimostri che abbiamo anche noi un padre, degli antenati e delle origini meravigliose, provenienti dall’Oriente.

Ci sono in realtà indizi di una possibile veridicità di queste origini: basti pensare a Erodoto e a quanto descrive in un passo delle sue Storie (I, 170):

Agli Ioni che, pur sotto il peso della sventura s’erano nondimeno adunati nel Panionio, Biante di Priene, secondo quanto ho sentito dire, diede un consiglio molto utile e, se gli avessero dato ascolto, sarebbero stati di gran lunga i più felici dei Greci: li esortava, cioè, a salpare con una flotta unica, e, recatisi in Sardegna, fondare colà un’unica città tutta di Ioni. Così, liberi di ogni schiavitù, sarebbero vissuti felici, abitando la più vasta di tutte le isole.

Sardegna isola della felicità, dunque, secondo Erodoto. Atzeni immagina una situazione simile, immagina cioè che un bel giorno, da un paese tra due fiumi, la Mesopotamia, fossero partite delle imbarcazioni con una popolazione che approda in quest’isola senza nome, la quale viene alla luce e comincia a esistere, ad acquistare identità, attraverso la denominazione degli oggetti. Le leggende toponomastiche non sono dunque ricercate e ricostruite a posteriori, ma vengono colte al momento della loro nascita, come M’ag o m’ad as, oppure T’ar r o s, o ancora t’Is kal’i, al cui centro c’è Is, la luna, cioè appunto la divinità mitica che viene dall’Oriente e che in Sardegna diventa la protettrice dei primi sardi che trovano rifugio in quella grotta.

In realtà, però, il vero fulcro dell’opera non è tanto la storia in sé o la trama, che è sottilissima, quanto il passaggio di testimone da un custode del tempo e della memoria a un altro. Ognuno di questi custodi diventa depositario di una storia che esiste solo se è raccontata, perché non ci sono documenti, non ci sono segni né scritture ma solo la memoria. Nel momento in cui la memoria tramandata viene fissata nella scrittura, perderà il fascino della sua mobilità, del suo essere continuamente ricreata e rinarrata, ma dell’oralità serberà alcune caratteristiche, compresa la sua mutevolezza e il fatto che, passando attraverso il filtro della memoria, le storie cambiano, le cose cambiano e si abbelliscono.

Nell’opera di Atzeni la Sardegna si configura come una terra di ombre e di luci, una terra di linguaggi, una terra di identità composite e mescidate, che permetterà ai suoi abitanti non tanto di sopravvivere quanto di vivere in accordo col tempo.

C’è un monito di Sergio Atzeni con cui si può concludere e riassumere il discorso: «Credo nel confronto: chi si chiude in se stesso, individuo o popolo che sia, è destinato ad autodistruggersi. Chi vive con gli altri, chi si misura anche sapendo di perdere certe gare, valorizza la parte migliore dell’umano».

L’indice

Presentazione – i Curatori

L’arte di inanellare storie – Giovanna Cerina

Letture a cura di Sylvie Cocco

Sergio Atzeni tra cronaca, storia e invenzione – Giulio Ferroni

La scrittura di Sergio Atzeni fra grottesco, ironia e umorismo – Ramona Onnis

Il percorso epico-storico di Sergio Atzeni: dai primi esperimenti letterari al racconto di fondazione – Ilaria Puggioni

La guerra di polvere e tempo – Piero Mura

Apologo del giudice bandito: Sergio Atzeni tra Storia e Realtà o l’isola del disordine – Marie Dominique Antona Cardinet

Sergio Atzeni e Manuel Scorza: storiografia e tradizione popolare – Manuel Coser

lingue a cura di Valeria Pala

Bellas mariposas e la stilizzazione del parlato cagliaritano. Tra linguaggio giovanile e italiano popolare – - Cristina Lavinio

Itinerari angloamericani della scrittura di Sergio Atzeni: ‘A Work in Progress’ – Margherita Heyer-Caput

Il figlio di Bakunìn e la Germania. Un pretesto letterario e la traduzione- Birgit Wagner

Sergio Atzeni tradotto in Francia e traduttore dal francese – Pascal Cordara

La sardità ‘postcoloniale’ e la scrittura orale in Passavamo sulla terra leggeri – Margherita Marras

linguaggi a cura di Pier Paolo Argiolas

Nel retino. Analisi spaziale di un adattamento: Bellas mariposas da Atzeni a Mereu – Giulio Iacoli

Tutte le lingue del mondo. Sergio Atzeni fra cinema e musica – Gianfranco Cabiddu

Il romanzo di Atzeni e il film di Cabiddu: riflessioni sui ‘due’ figli di Bakunìn – Stefano Sanjust

Bellas mariposas, storia di una sceneggiatura mai nata – Enrico Pau

Predilezioni musicali e partiture sintattiche nel primo Atzeni – Giancarlo Porcu

testimonianze

Cantava di cani bagnati / di blues mai suonati / ha sognato mariposas: belle e sguaiate – Rossana Copez

Ricordo di un impegno politico condiviso – Massimo Zedda

Da t’Is kal’i a tiscali – Cristiana Mura

Autori

Bibliografia

Indice dei nomi