A Pradu Pintau

Autore: Marinella Caocci, Massimiliano Pisu
Anno:  2011
Pagine: 272
ISBN: 978-88-95692-49-4
Prezzo:€ 13,00
Note: nd

Il libro

1 capitolo

A Pradu Pintau, la notte di San Lorenzo, non caddero solo le stelle.

In quell’angusto angolo della Sardegna con il suolo rigonfio di rocce di scisto e granito, dove cavalli e vacche, pecore e capre, porci e polli dividevano pasti e ricoveri con poco più di un migliaio di anime, ogni giorno non era mai uguale all’altro. Tanto meno quando ci pensava anche la natura a dare spettacolo con le sue metamorfosi estive.

Don Caggiarba e don Morittu si erano lasciati la porta della sagrestia alle spalle, per tuffarsi nell’aria briosa della sera. Nella cucina della canonica, impregnata degli odori delle verdure lessate dalla perpetua per la minestra, tra un racconto, un amaretto e un bicchierino di moscato, avevano continuato a disquisire delle condizioni del campanile, della qualità  del mosto, della fragranza del formaggio di capra e delle nuove minde, le concessioni comunali per i pascoli, senza accorgersi del trascorrere del tempo.

Non che a don Caggiarba dispiacesse, mancava da quei posti da molto tempo e il ritorno alla vita di paese lo faceva sentire più vivo e più pulito. Quando l’arcivescovo Nappa aveva deciso di inviarlo in missione sui monti dell’interno non aveva indugiato un secondo e si era sobbarcato i quattro giorni di viaggio a cavallo, felice come un bambino con un dolce in mano. Ora però quel compiacimento andava via via sfumando verso una dolorosa presa di coscienza. Non si aspettava di trovare certo una situazione così grave nel suo adorato paese natìo, ma ormai si stava facendo strada dentro di sé un brutto presagio. Non aveva paura don Caggiarba, lui credeva ciecamente nel suo Dio, però minacce più o meno celate e ora, poi, quella conferma, che un po’ si aspettava ma in cuor suo sperava di non avere mai, lo avevano turbato.

I due religiosi attraversarono a piccoli passi la piazzetta di Santu Giuanne, con i suoi balconcini di legno e ferro battuto e le pietre del selciato lisce, a riflettere la luna e le stelle. Quale notte migliore se non quella di San Lorenzo per ammirare le suggestive architetture della piazza, pensò don Caggiarba, se non fosse stato per quella campana stonata di don Morittu che aveva ricominciato con la solita litania dell’alloggio.

- Mi dia retta don Cabbirgia – non era ancora riuscito a pronunciare il cognome in modo corretto – vada a stare dalla vedova Pittorru, io la ospiterei in canonica ma lei stesso ha visto in che condizioni sono le stanze, cali ”˜n cuna dì d’arruiri tottu – commentò mangiandosi le ultime parole.

- Come? – esclamò don Caggiarba incapace di comprendere il vernacolo di quel posto da quando aveva cominciato a esprimersi in latino e con la lingua dei colti.

- Qualche giorno cadrà  tutto – ribadì l’altro mostrando un’espressione accigliata tra l’intrico di rughe. – Ma non le consiglio comunque di alloggiare lassù, quello non è un Convento, è un nido di vipere, giacché se è vero che qualcuno si salva, si sa che l’erba mala si prende tutto…

- Don Morì, ne abbiamo già  parlato, e poi sa bene che per vedere il diavolo ci si deve bruciare un po’ i piedi.

- Capisco. Ma stia attento a non bruciarsi anche il sedere.

- Padree, non esageri con la sua simpatia verso i frati…  Il vicario si sforzava di scherzare, ma i difetti da emendare riscontrati dal Vescovo in quella piccola villa che da ben tre secoli faceva capo alla diocesi di Cagliari, c’erano eccome. E lui era stato inviato in ricognizione, proprio a Pradu Pintau, dove da anni gli attriti fra ecclesiastici facevano il paio con la riottosità  della mala gente.

- Sì, sì, solo perché hanno un saio sono convinti di poter calpestare i diritti degli altri religiosi – riprese don Morittu. – Sa cosa mi hanno combinato il mese scorso? La vedova Pintori era venuta a chiedermi una messa in suffragio del suo caro marito defunto. Voleva farla celebrare nella chiesa del Convento, perché diceva che l’uomo era devoto a San Francesco… Tra me e lei, don Cabbì, sembra che volesse fare le cose in grande per mettere a tacere il fatto che si fosse già  dimenticata del marito, insomma, storie di corna mì…

- Padreee.

- A farla breve, i confratelli col saio sa cos’hanno fatto? Piuttosto che farla celebrare a me hanno negato alla vedova la messa al Convento!

Don Caggiarba non vedeva l’ora di arrivare all’arco che delimitava la piazzetta, da dove poi avrebbe proseguito in solitudine verso il monastero. Temeva che dietro tanto pepe, il parroco si fosse accorto delle sue curiosità  su certe donazioni fantasma dei frati alla chiesetta della Purissima, anche se credeva di aver preso tutte le precauzioni del caso per sviare il sacerdote. Da quando il vicario gli aveva chiesto di poter controllare i registri, don Morittu non si era risparmiato tutti i tipi di allusioni maligne nei confronti dei conventuali e degli stessi amministratori locali, rei di restare impassibili di fronte al disfacimento della chiesetta. Ma ora iniziava a esagerare e prima che arrivasse a particolari scabrosi era meglio lasciarsi.

- …Vedrà  se mi sbaglio, don Cabbirgia, anche i reverendi don Facciaefuntanantiga o come diavolo lo chiamano, e don Turone sono inviperiti, e hanno detto che si faranno sentire da chi di dovere!

- Padre, la ringrazio per avermi fatto compagnia, ma se non le dispiace ora vorrei gustarmi da solo questa splendida notte – si limitò a dire don Caggiarba.

- Sì, sì, ho capito, lei non mi vuole stare a sentire, ma almeno stia all’erta – si raccomandò l’altro scuotendo le spalle e la gonnella dell’abito talare, come a liberarsi delle ultime briciole di animosità .

- Vada in buon’ora padre, e buona notte.

Don Morittu, con un improvviso dietrofront, s’incamminò per la canonica, borbottando. Ma fatti neanche dieci passi si voltò e sbraitò: – Se cambia idea sulla vedova Pittorru mi faccia sapere… così potremo…

Don Caggiarba ormai non lo ascoltava più. Si fermò qualche secondo ancora per assaporare quello che era diventato il momento più bello della giornata: percorrere la salita che portava a Cistri, la borgata più povera del paese, che s’inerpicava tra gli stretti tornanti fino al monastero. Un chilometro circa di strada in battuto che passava tra le casette di Cistri e i loro orti, già  pregustava l’aroma penetrante di basilico e prezzemolo e pomodori messi a seccare. Avrebbe fatto una sosta a Funtana ”˜e susu, che distava ormai meno di cento metri, e con unu bellu grogallu d’acqua fresca, il recipiente di sughero o legno che sicuramente qualche anima buona aveva lasciato presso la fonte per i passanti, avrebbe fatto un rabbocco di forze e fiato per affrontare gli ultimi scampoli di salita.

- Eh, se fossi stato un po’ più giovane – disse col respiro già  corto – sì che avrei fatto i gradoni. Sul fianco della fonte le scale in pietra, oramai mangiate dai muschi e dai licheni, lo avrebbero portato nella stradina di Cistri, tagliando fra gli orti profumati e risparmiandogli un tornante. Ma le ginocchia ormai… era meglio desistere.

Sorrise al ricordo dei gradoni di Crastamusca, chissà  se la donna si piazzava là  come un tempo, rammentò il religioso, doveva essere ancora in vita visto che, se la memoria non lo ingannava, lo vinceva di pochi anni. Li avevano chiamati così, quei gradoni, perché Lucia Pompedda vi si sedeva tutto il giorno a vendere legumi e la notte a prendere il fresco, le malelingue dicevano a vendere altro, ché quella ragazzina lì mica schiacciava le mosche, semmai cercava mosconi! Ma lei se ne infischiava e continuava a mercanteggiare, mentre con un ramo di felce si difendeva dagli insetti.

Da ragazzini ci si sfidava a chi li faceva più in fretta i gradoni, e quante sbucciature e teste ammaccate con Crastamusca a urlare e fare da giudice, beata gioventù.

Ormai giunto all’altezza della sorgente, lo accolse un silenzio quasi irreale interrotto solo dallo sciabordio dell’acqua. L’aria si era come fermata, gli olivastri immobili, gli animali notturni inspiegabilmente privi di versi.

Accadde tutto così rapidamente che neanche le cicale s’accorsero del boato. Una forte spinta alla spalla sinistra fece stramazzare bocconi don Caggiarba. Appena il tempo di capire che era giunta l’ora di tirare le somme delle sua vita terrena. La veste scura si era fatta a poltiglia nel rosso del sangue tra la spalla e il cuore. Carne sbrandellata si sparse nel terreno, sciacquata via dagli spruzzi della fonte. Manco il tempo di recitare l’atto di dolore gli dettero. Voltò il capo verso il cielo pieno di stelle, mentre l’atroce bruciore si allargava a macchia d’olio sulla schiena e la nebbia degli occhi gli chiudeva le porte del mondo. L’ultimo sguardo incontrò gli occhi di un bambino spaventato, nascosto nel buio dei gradoni. Forse non era così male morire quella notte, la notte di San Lorenzo. Con il sorriso ben stampato di chi si spegne contento, don Caggiarba non si accorse neanche del dileggio che gli portò un’ombra incappucciata, che si accostò al corpo e poi lo scostò con un piede per accertarsi che avesse reso l’anima a Dio.