Un piccolo assaggio del libro Sardinia Hot Jazz

Gramsci, il jazz, la Sardegna e il mondo nuovo

Eravamo entrati da un cancello aperto in un viale che portava ai lati un susseguirsi di tabelle réclame; dopo una breve salita, svoltando, davanti a un colossale hà´tel un cafarnao di tavolini e di sedie abboccate, di poltrone di vimini accatastate, di casse ammucchiate, e sopra tutto questo un intrico di fili da cui spenzolavano lampade e stracci multicolori.
Sulla fanghiglia tralci pesti e cicche di sigarette, rose in boccio appassite e fogli réclame multicolori: yo! yo! l’etoile de Missouri!… Aho! aho! charleston indiano… jazz jazz jazz a tutte le ore!… e a caratteri cubitali spenzolante accartocciato da un porta manifesti: «Danser Negr…»
Ci fermammo. Ci frullò in testa la moltitudine pullulante, la fuga precisa e rapida dei tavoleggianti nell’orgia di luce multicolore, nell’incenso del tabacco. E nell’aria il rude e frusciante brivido del jazz.

Giovanni Cau, Jazz-Band

Le suggestioni evocate da Giovanni Cau ci portano lontano. Ci conducono agli inizi del Novecento quando il jazz era ancora qualcosa di misterioso, una situazione tutta da scoprire e da capire. Si percepisce tra le righe la grande forza di rottura che ebbe in quegli anni, si capisce che non deve essere stato facile farsi spazio in un’Italia bigotta e imbalsamata, divisa e incredula, pronta ad accettare le insidie e le lusinghe di una dittatura che si dimostrerà  devastante nei confronti di qualsiasi movimento culturale endogeno o, a maggior ragione, proveniente dall’esterno. Il racconto di Cau si chiude con il drammatico resoconto di una colonia di vermi distrutti da una colata di cemento “mentre giorno e notte il jazz frenetico infuriava sopra di essi”. Una visione devastante che ci fa capire quanto la nuova musica sincopata appariva pericolosa e micidiale, “terribile dev’essere stata la loro vita, tutta l’estate… certo tanto è durata la loro agonia… e quel jazz”.
In Sardegna la situazione è ancora più indecifrabile, isola che mal si adatta alla politica del continente, che ancora non ha ben capito il senso dell’Italia unita e luogo lontano da infiltrazioni esotiche e ammalianti.
A quell’epoca l’unica voce, autorevole e importante, che ha provato ad analizzare l’exploit del jazz a livello mondiale, è stata quella di Antonio Gramsci. Su questo tema si è scritto tanto e diverse sono le posizioni assunte dalla critica, ma la discussione è ancora aperta e difficilmente porterà  a un consenso assoluto sul pensiero del filosofo di Ales in relazione al tema del jazz. In verità  le pagine che Gramsci dedica al jazz sono davvero poche e anche poco definite, ma tanto basta per aprire un dibattito e una discussione sulla visione della musica afroamericana nel periodo intercorso tra le due guerre mondiali. L’intervento più importante lo si trova in una lettera che Gramsci scrisse il 27 febbraio 1928 alla cognata Tatiana Schucht, nella quale affrontava il problema del rapporto e dell’impatto delle culture asiatiche con la civiltà  occidentale. Una discussione che Gramsci aveva avuto con un altro detenuto di fede “metodista o presbiteriano” che paventava un innesto del buddismo – idolatria asiatica – nel ceppo del cristianesimo europeo. In questo contesto Gramsci parla del jazz in questi termini:

Il buddismo non è un’idolatria. Da questo punto di vista se un pericolo c’è è costituito, piuttosto, dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è possibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzanti, che l’avere sempre nell’orecchio il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici? a) Si tratta di un fenomeno estremamente diffuso che tocca milioni e milioni di persone estremamente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà  non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico. Insomma il povero evangelista fu convinto che, mentre aveva paura di diventare un asiatico, in realtà  egli, senza accorgersene, stava diventando un negro e che tale processo era terribilmente avanzato almeno fino alla fase di meticcio. Non so quali risultati siano stati ottenuti: penso che non sia più capace di rinunziare al caffè con contorno di jazz e che d’ora innanzi si guarderà  attentamente nello specchio per sorprendere i pigmenti di colore nel suo sangue.

La posizione di Gramsci nei confronti dell’avvento del jazz era già  stata espressa in una lettera dell’8 agosto 1927 all’amico Giuseppe Berti, nella quale esprimeva una profonda delusione intellettuale derivata in seguito alla lettura di un libro di Henri Massis, Défense de l’Occident.

Ciò che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta paura che l’ideologia asiatica di Tagore e Gandhi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico, la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band è la prima molecola di una nuova civiltà  eurafricana!

Il tenore del pensiero gramsciano sul jazz è abbastanza controverso e oggi fa sicuramente un certo effetto leggere queste righe e trovarci una visione così apparentemente poco moderna da parte di un pensatore aperto e curioso come Antonio Gramsci, pur mantenendoci il dubbio che possa trattarsi di un paradosso voluto. Uno degli interventi più interessanti in relazione a queste citazioni è stato quello di Luigi Spina che ha cercato di interpretare lo stato d’animo di Gramsci rapportandolo ai tempi in cui queste righe furono scritte:

Si può cogliere nelle argomentazioni gramsciane quello che forse fu storicamente, negli intellettuali di una certa formazione politica e ideologica, l’impatto con nuove forme artistiche, in questo caso la musica nera americana; forme artistiche che, mentre si presentavano come prodotti rispettabili di una cultura altra, “estranea”, da non censurare quindi razzisticamente, pur tuttavia, proprio per la loro ampia, e forse inaspettata diffusione tra vasti strati, specialmente di borghesia colta, mostravano l’aspetto pericoloso della evasione, della irrazionalità  sui quali abbastanza tardi il movimento operaio avrebbe espresso una visione equilibrata ed aperta.

È pur vero che quella gramsciana non era una posizione isolata tra l’intellighenzia italiana dell’epoca. Bisogna tenere presente che l’ideologia del ventennio fascista ha da subito osteggiato qualsiasi forma d’arte non conforme alle linee di pensiero del regime e lo stesso Partito Comunista Italiano – che solo in un primo momento ebbe un atteggiamento benevolo nei confronti della musica jazz – ha avuto una posizione di totale chiusura, adeguandosi ai dettami del fronte sovietico espressamente antiamericano per principio. Si è dovuto aspettare la fine della guerra fredda per riuscire ad avere una visione più adeguata nei confronti della musica afroamericana. Insomma l’Italia, a differenza di altre realtà  più evolute come quella francese o quella americana, non era ancora pronta a confrontarsi con il mondo che cambia, con le idee e le forze dirompenti del nuovo secolo.
Quel che invece appare di notevole interesse nel pensiero di Gramsci è di aver capito, con notevole anticipo sui tempi, che la cultura – in questo caso il jazz – poteva essere una potentissima arma di diffusione ideologica. Quello che oggi appare abbastanza scontato quando si parla di globalizzazione o di egemonia dei mass media non lo era certo negli anni Venti e da questo punto di vista il pensiero di Gramsci è sicuramente in anticipo sui tempi.
È quanto emerge dalle tesi esposte da Franco Bergoglio in un interessante volume dedicato alla musica jazz e al suo impatto sulla cultura del Novecento. Il critico torinese mette l’accento più sulle dinamiche che regolano la veicolazione delle ideologie che sulla specificità  estetica e sociale del jazz che, negli anni degli scritti di Gramsci, era ancora un fenomeno poco conosciuto.

Era la massificazione delle forme artistiche a preoccupare l’autore; veniva messa in luce la funzione sociale e culturale del jazz, però era completamente ignorata la genesi americana di questa musica; l’interesse evidente era per i suoi sviluppi europei. In fondo il jazz era ancora una moda e la critica si evolverà  e si affinerà  di pari passo con la crescita della musica stessa; inoltre, come dice giustamente Spina, Gramsci era condizionato dai “sospetti che un dirigente comunista nutriva costituzionalmente di fronte a espressioni e comportamenti inquadrabili attraverso la griglia conoscitiva e valutativa della sua ideologia”.

Le posizioni di Gramsci nei confronti del jazz vanno pertanto inquadrate in questa prospettiva al punto che Bergoglio le considera un “peccato veniale” rispetto alla grande curiosità  intellettuale e alla lungimirante analisi di un mondo che cambia, mai dimenticando che le ideologie totalitarie del Novecento ebbero atteggiamenti di ostracismo e di totale chiusura verso le nuove forme d’arte provenienti da altre culture che non possono trovare alcuna assoluzione. Per Bergoglio, Gramsci

…coglie quella che è una caratteristica intrinseca al jazz: la sua enorme potenzialità  in termini di diffusione culturale. Certamente l’esportazione semicoloniale dell’arte americana per il mondo ha reso possibile ovunque la sua infiltrazione; ma il linguaggio peculiare del jazz è di fusione con altre culture non di imposizione forzosa. Questo ne spiega la fortuna e ne costituisce uno dei meriti principali.

Dalle considerazioni di Bergoglio emerge una caratteristica peculiare del jazz: quella di sapersi adattare a realtà  sempre nuove e trovare quindi soluzioni estetiche inedite. Affinché ciò accada è pacifico che il rapporto deve essere paritetico. Il jazz cioè si organizza laddove la realtà  che lo riceve dimostra apertura culturale, curiosità  e disponibilità  verso il nuovo. Caratteristiche che possiamo trovare nell’esuberante cultura francese tra le due guerre ma non in regimi totalitari come quello tedesco, quello del ventennio fascista italiano e dell’Unione Sovietica. Altra condizione indispensabile è quella di trovarsi di fronte a una realtà  evoluta anche economicamente, ad un dinamismo sociale moderno e progressista. Caratteristiche che non sono certo presenti nella Sardegna dei primi 50 anni del Novecento. Ecco perché i pochi musicisti sardi che hanno avuto contatti con il jazz sono quelli che hanno dovuto cercare fortuna e possibilità , lasciando l’isola, verso nuove esperienze oltremare.
È il caso del compositore di Samassi Lao Silesu che nella sua carriera è riuscito ad entrare in contatto con i nuovi fermenti culturali europei, in terra francese, e ad avere importanti contatti con il nuovo mondo e con l’America del jazz evocata da Francis Scott Fitzgerald. Un ottimo esempio di questa elasticità  culturale proviene da una delle sue composizioni di maggior successo, A Little Love, A Little Kiss, una romanza composta originariamente con un testo francese di A. Nilson Fysher e intitolata Un peu d’amour. La canzone prima conquistò l’Europa e poi invase l’America e arrivò persino alle orecchie di Giacomo Puccini che la accolse con toni estremamente positivi:

Mio buon Silesu, Marengo, puntualmente, mi recò a Bruxelles i tuoi saluti consegnandomi il gradito omaggio, nuovo gioiello che va ad arricchire il tuo fortunato scrigno musicale. Anche questo gentile ed artistico lavoro è tutto profuso di quella incantevole dolcezza che sai riservare in tutte le tue composizioni rendendole care. Esse conquisteranno sempre i cuori delle folle. Ho constatato con piacere lo svelto propagarsi delle loro arie. Ti stai guadagnando l’erta ed ormai puoi guardare con serena fiducia verso l’avvenire che ti sorride come una giornata di primavera. Ti sono infinitamente grato per il costante ricordo che ricambio con molto affetto augurandoti, mio giovane amico, tutto il bene che meriti. Cordialmente. Giacomo Puccini.

Nel 1912 la casa editrice londinese Chappel & Co. Ltd. ne pubblicò la versione inglese con parole di Adrian Ross e negli anni la canzone è diventata uno standard molto apprezzato nell’ambiente del jazz internazionale tanto da essere riproposta da numerosi interpreti: nel 1927 dal chitarrista jazz Eddie Lang e ancora nel 1941 dalla vocalist Jeanette Mac Donald come colonna sonora del film di Franz Borzage, Catene del passato del 1941.
Della versione originale del brano sono reperibili – in base alle ricerche effettuate da Roberto Piana – due differenti incisioni: una di John McCormack realizzata tra il 1912-14 e una, successiva, di Richard Crooks.